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Contagi d’agosto: non confondere starnuti e polmoniti

In molti continuano a ragionare come se fossimo nel 1998, ai tempi della crisi asiatica e del default russo. Il mondo oggi è un altro pianeta e gli emergenti di una volta hanno le chiavi del futuro.

17 Agosto 2018 07:50

Il 17 agosto sono vent’anni dal default russo, l’evento culminante di una crisi finanziaria iniziata esattamente un anno prima nel sud-est asiatico con epicentro Tailandia e rapido ‘contagio’ alle altre tigri asiatiche di allora: Malaysia, Filippine, Indonesia e Corea del Sud. Era successo che le tigri erano cresciute troppo e troppo in fretta, con debito molto a leva. Il surriscaldamento delle economie aveva portato alla violenta svalutazione delle rispettive valute e a una forte recessione in tutta l’area. Conseguenza, caduta dei consumi petroliferi e delle importazioni di metalli destinati alle costruzioni. Il principale fornitore di queste materie prime era la Russia di Yelstin, che già non se la passava bene di suo. Mosca fu costretta a svalutare il rublo, fare default sul debito domestico e dichiarare una moratoria su quello estero. Le onde d’urto arrivarono fino a New York, facendo saltare l’hedge fund LTCM di John Meriwether, poi salvato dalla Fed di New York in quella che fu una specie di prova generale dei salvataggi ben più grandi dopo il crac di Lehman 10 anni dopo.

UN’ALTRA ERA GEOLOGICA


Ai tempi la Cina non c’era ancora, almeno quella che conosciamo oggi. Mancavano ancora tre anni al suo ingresso nel WTO, non era un attore del mercato e della finanza globali. E quindi non fu contagiata. O se lo fu nessuno lo venne a sapere. Nel 1998 le economie sviluppate contavano quasi il 60% del PIL globale, quelle emergenti o in via di sviluppo poco più del 40%, la Cina da sola arrivava poco sopra il 6%. Oggi il rapporto è ribaltato, 40% le prime e 60% le seconde con la Cina oltre il 18%. Tra 15 anni l’80% del ceto medio globale vivrà fuori da Stati Uniti ed Europa e già nel 2020 spenderà in consumi circa 20.000 miliardi di dollari. Dalla crisi delle tigri asiatiche e della Russia sono passati solo vent’anni, meno di una generazione, ma in termini di bilancia economica globale è passata un’era geologica. Non solo molti paesi emergenti non sono più il vaso di coccio che può andare in pezzi al primo urto violento, ma si stanno trasformando nella solida piattaforma su cui poggia la crescita globale.

I MIGLIORI ALLEATI DELL’INVESTITORE


Per dirla con il chairman di Strategic Wealth Partners Mark Tepper, “il consumatore dei mercati emergenti è uno dei migliori alleati dell’investitore in questa fase e l’investitore non può permettersi di non avere in portafoglio gli emergenti.” Per questo gli allarmi sul rallentamento e sul sovra-indebitamento del principale paese emergente, la Cina, vanno presi con molta cautela. Il valore del PIL globale è proiettato verso i 90.000 mld di dollari a fine anno, e la Cina ne rappresenta circa il 18%, qualcosa come 16.000 mld e passa. Una crescita del 6-7% l’anno come quella attuale rapportata a una tale dimensione vale quasi l’intero PIL cinese di vent’anni fa, quando il PIL globale valeva poco più di 30.000 mld e la Cina ne rappresentava un paio di migliaia. Gli ultimissimi dati dicono che gli investimenti fissi rallentano al 5,5%, la produzione industriale viaggia al 6% e i consumi crescono poco meno del 9%. La crescita non è più a due cifre ma sono numeri robusti per un’economia che in termini assoluti (non per PIL pro-capite naturalmente) vale quasi quanto quella USA.

BOTTOM LINE


Forse ‘emergenti’ è un termine da eliminare dal vocabolario dell’investitore, è diventato fuorviante perché suggerisce che possano ancora tornare sommersi e evoca scenari anche recenti che non possono ripetersi. Una volta si diceva che se l’America starnutisce l’Europa prende un brutto raffreddore e il resto del mondo una polmonite. Si potrebbe partire da qui e ridefinire le economie da starnuto, quelle da raffreddore e quelle da polmonite. Indipendentemente da dove si trovano sul mappamondo.
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