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Barack Obama

International Editor's Picks - 31 marzo 2014

31 Marzo 2014 09:50
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Come sarà l’America dopo Obama? La domanda è legittima visto che mancano due anni e mezzo alle presidenziali del 2016. E le risposte non sono scontate, almeno a leggere un’interessante analisi del Financial Times. Per anni si sono susseguite le previsioni di declino dei repubblicani, motivate soprattutto da fattori demografici. Il nocciolo duro del GOP (Grand Old Party, così lo chiamano in USA sostenitori ma anche avversari) è costituito da bianchi protestanti. Una componente che sta diventando sempre più minoritaria per l’incremento continuo della popolazione di origine ispanica, che si va ad aggiungere alle altre importanti minoranze, dai neri, ai cattolici italiani e irlandesi, etc. Gioca contro anche la cultura della tolleranza, che si concretizza nei matrimoni gay e nella liberalizzazione della marijuana. Eppure le previsioni degli esperti vanno in direzione opposta, verso un ritorno dei Repubblicani, a cominciare dalle elezioni di mid-term di novembre, quando potrebbero rafforzare il controllo del Senato e addirittura riprendersi la Camera. Fino alla prospettiva di un GOP mai così forte da oltre 15 anni per le presidenziali. Ad aiutarli è paradossalmente proprio il fattore demografico. Come in Texas, dove la minoranza ispanica sta per diventare maggioranza. E dove il leader dei repubblicani si chiama Ted Cruz. Il DNA dell’America sta cambiando, scrive il FT. I cattolici italiani e irlandesi sono diventati in maggioranza repubblicani, e gli ispanici, per definizione cattolici, stanno seguendo la stessa strada, mentre solo i neri sono rimasti saldamente democratici, insieme all’influente ma numericamente poco pesante comunità ebraica e ai liberal concentrati sulle due coste. La prospettiva neanche troppo remota è di un’America a trazione repubblicana e di un partito repubblicano a sua volta a trazione cattolica. Forse quando Obama è andato a farsi benedire dal Papa aveva in mente anche i sondaggi elettorali.

A lezione di finanza su Business Insider. Che riporta il racconto autobiografico e professionale di Howard Marks, uno dei gestori più noti e ammirati sul mercato americano. Si comincia con il primo ricordo di lavoro, ma anche con la prima lezione, che lo ha ispirato per tutta la sua vita di successo. Siamo nel 1969 e il giovane brillante laureato Marks inizia la sua carriera in Citibank, dove al tempo vigeva la regola del “Nifty 50”. Molto semplice, investiamo nei 50 migliori titoli del NYSE, come Xerox, IBM, Kodak, Polaroid, Merck, Textron and Coca-Cola, ce li teniamo. Sbagliare non possiamo. Il problema è che Citibank li comprava senza guardare il prezzo, racconta Marks, mentre è proprio quella la discriminante. Infatti nel 1973 i 50 Nifty valevano il 90% in meno. Arriva il 1978 e Citibank chiede a Marks di farsi un giro in California, dove c’è un tipo che si chiama Milken o qualcosa di simile e investe in una diavoleria chiamata high-yield bonds. Marks parte, incontra Michael Milken e capisce tutto. Nel 1978 crea il portafoglio high-yield di Citibank e lo gestisce fino al 1985. Il paradigma del Nifty 50 è capovolto da Marks, non compra più i titoli migliori a quelunque prezzo, ma quelli peggiori purchè il prezzo sia abbastanza basso: “il successo non è una funzione di quello che compri, ma del prezzo che paghi”. Il portafoglio high-yeld di Citibank gestito da Marks porta a casa ritorni importanti e il nostro decide di mettersi in proprio, fondando Oaktree Capital Management, specializzato nel debito e in generale nelle “distressed securities”, che ancora oggi produce performance stellari: negli ultimi 25 anni ha portato a casa un ritorno medio annuo del 23%. Marks racconta la lezione imparata in California, dove tutti aspettano prima o poi un terremoto: se vivi in una casa che non è crollata negli ultimi 30 anni non vuol dire per forza che sia solida, vuol dire solo che non è stata testata. Lo stesso vale per un portafoglio: quello che conta non è se fa soldi quando il mercato sale, ma se resta in piedi quando il mercato crolla. Sul 2014 Marks è ottimista, ma con cautela: faremo due passi avanti e uno indietro, è la sua previsione.

Ucraina. Da quando è cominciata la crisi, grandi titoloni su giornali e telegiornali ma poco o nullo l’impatto sui mercati. Anatole Kalestsky che firma la colonna “iconoclasta” sul WSJ la pensa allo stesso modo. E si chiede: come mai tutti avevano gridato alla catastrofe e alla terza guerra mondiale e nessuno aveva previsto che sarebbe finita in una colossale bolla di sapone? Perché, è la risposta, il dramma paga. Paga per i media, perché i conflitti fanno vendere di più dei negoziati. Paga per i politici, perché fornisce a costo zero l’opportunità di fare i duri davanti alle rispettive opinioni pubbliche. E paga per gli analisti, perché previsioni catastrofiche giustificano il costo elevato delle loro analisi. Ma allora, conclude il columnist, dramma per dramma non sarebbe meglio lasciar stare l’Ucraina e andarci a godere Re Lear a teatro?

I Lupi di Wall Street – quelli veri, come l’ex capo di Goldman Hank Paulson – nella seconda parte del 2013 avevano liquidato le posizioni nelle banche USA e investito massicciamente in quelle greche. Ora apprendiamo dalla Lex column del Financial Times che le azioni delle prime tre banche del paese, finito sotto il treno della crisi del debito, da luglio 2013 a oggi sono cresciute dell’82%. Di più, Deutsche Bank prevede che Alpha, Piraeus e National Bank of Greece incrementino i ricavi del 10% l’anno di qui fino al 2018. Da quando Paulson e la sua pattuglia di hedge fund è sbarcato in Grecia, invece, i titoli bancari americani sono rimasti praticamente fermi. Non durerà per sempre, ovviamente. E altrettanto ovviamente, quando la festa sarà finita lo leggeremo in ritardo. I Lupi di Wall Street agiscono prima di parlare, non il contrario.

Restiamo in Grecia perché il New York Times informa in un reportage da Atene che nel paese è tutto un fiorire di startup. I numeri non sono a nove zeri come in Silicon Valley, qui siamo a cinque, massimo sei. E nei settori più disparati: turismo, naturalmente, ma anche tecnologia, come nuove apps per la mobilità, al design, alla moda, fino all’editoria tradizionale e online. Il Times ne ha contate 41.000 solo nel 2013. Il fatto è che la disoccupazione è al 28%, i 10 miliardi di stimolo economico sono andati tutti a ripagare il debito e quindi i greci, soprattutto i giovani, non avevano alternative se non rimboccarsi le maniche e cercare di ripartire con le proprie forze.
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