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Dopo il G7

La nuova alleanza Usa-Europa contro la Cina voluta da Biden

L’America fa poche concessioni a Pechino, ma a differenza di Trump cerca supporto dagli alleati. Intanto sembra rientrata l’aggressività sulle tasse, ma resta il rischio di un errore della Fed

di Stefano Caratelli 14 Giugno 2021 08:26

Solo poco più di 4 anni fa il leader cinese Xi Jinping dalle nevi del World Economic Forum di Davos ammaliava i leader europei e non come un ‘pifferaio magico’, presentandosi da campione del libero mercato globale, minacciato dal neo-protezionismo pericoloso e potenzialmente guerrafondaio di Donald Trump, che appena insediato alla Casa Bianca aveva dichiarato la ‘guerra dei dazi’ al colosso orientale, ma anche ai tedeschi e perfino agli alleati del Nafta canadesi e messicani. Joe Biden avrebbe dovuto restaurare il mondialismo di Obama inaugurando un ‘vogliamoci bene’ globale su scambi e competizione tecnologica, facendo finalmente pagare ai ricchi americani il costo degli stimoli anti-Covid e persino dando di nuovo via libera ai programmi nucleari dell’Iran. Il quadretto che ci restituisce il G7 in Cornovaglia è decisamente un po’ diverso. Biden non solo non ha fatto pace con Xi, ma lancia accuse ai cinesi di concorrenza sleale che vanno oltre i prezzi stracciati e gli abusi tecnologici, e si spingono alla denuncia del ‘lavoro forzato’, fino alla sfida ‘belt and road’ di Pechino, con il grande piano infrastrutturale globale a guida G7.

PIATTAFORMA PER IL G20 DI ROMA


Un’agenda per ora tracciata solo a grandi linee, che sposta comunque sul piano più alto della politica le rivendicazioni puramente economiche di Trump alla Cina, e che toccherà probabilmente a Mario Draghi trasformare in qualcosa di accettabile anche per i colossi emergenti al G20 di Roma che presiederà a novembre, probabilmente facendo la parte del ‘poliziotto buono’, come sta già lasciando intendere, lasciando a Biden quella del ‘cattivo’. Rispetto a Trump, la visione di fondo di Biden non sembra molto diversa, prima viene l’America poi il resto del mondo. Solo che alla guerra The Donald ci andava da solo sparando tweet notturni contro tutti e tutto, mentre Joe sta cercando di costruire un’alleanza occidentale per andare più forte al confronto con il rivale globale cinese, e invece di esporsi come un bersaglio sui social fa filtrare le sue intenzioni sui media tradizionali ancora autorevoli, come il WSJ e la Reuters, per vedere l’effetto che fanno, e se non è esaltante non insiste.

FORSE TOLTO DAL TAVOLO IL RISCHIO TASSE


È stato così per la tassa sui capital gain dei ricchi, qualcuno ne ha sentito parlare ultimamente? Oppure per l’aumento delle tasse della Corporate America, rimasta sostanzialmente nel cassetto e sostituita con la ‘global minimum tax’, perfetta per raccogliere applausi ma poco praticabile nel concreto. Agli alleati europei, in cambio di uno schieramento sulla sua linea con la Cina, ha concesso l’adesione agli accordi di Parigi sul clima, la cui attuazione costerebbe molto di più a Pechino, che finora non ne condivide gli obiettivi di riduzione delle emissioni, che a Washington. Un paio di mesi fa scrivevamo su Financialounge.com che investitori e mercati dovevano tenere d’occhio due possibili errori di ‘politica’, sia da parte dell’Amministrazione Biden che della Fed di Powell: esagerare con tasse e stimoli fiscali e uscita prematura dall’allentamento monetario. Il primo rischio sembra sostanzialmente evitato, anche se i sussidi continuano a correre inducendo molti americani a preferire starsene a casa che accettare salari giudicati troppo bassi.

SULL’INFLAZIONE FALSI ALLARMI


Ma i pasti gratis stanno per finire e si può anche aggiungere che forse salari un po’ più alti non farebbero male neanche alle imprese. Tutto sommato, la piena occupazione di Trump era fatta di tanti posti di lavoro creati nella parte bassa del mercato, mentre un po’ di competizione al rialzo potrebbe rendere la ripresa meno congiunturale e più sostenibile. E se salari più alti si aggiungono a tutti gli altri fattori che stanno spingendo l’inflazione costringendo la Fed ad alzare i tassi anzitempo? Nonostante gli allarmi che negli ultimi giorni si sono intensificati, la fiammata inflazionistica americana è tutta dovuta a fattori una tantum, dal rimbalzo del petrolio all’aumento dei prezzi delle materie prime e dei componenti, come i chip, a loro volta dovuti a colli di bottiglia produttivi e distributivi causati su scala globale da pandemia e lockdown, su cui si è ovviamente innestata un po’ di speculazione.

MA RESTA IL RISCHIO DI ERRORE DELLA FED


Quindi resta il rischio di un errore della Fed, cioè interrompere troppo presto il sostegno monetario a mercati e economia, magari anche per riaffermare la sua indipendenza dalla politica, come fece ai tempi di Trump, a fine 2018, solo per essere costretta a una precipitosa marcia indietro spaventata dalla reazione dei mercati. Per questo l’appuntamento del FOMC di metà settimana è importante, e ancora di più il simposio di Jackson Hole di fine agosto in Wyoming, utilizzato l’anno scorso dal capo della Fed Powell per annunciare la nuova linea di tolleranza su un’inflazione anche ben sopra il target del 2%. Nonostante i titoloni di giornali e tv e gli allarmi dei guru, i mercati non credono che sia in arrivo un ritorno strutturale e robusto dell’inflazione, come dimostra il rendimento del Treasury a 10 anni rientrato ben sotto quota 1,5% dopo il picco oltre l’1,7% di fine marzo.

BOTTOM LINE


Per l’investitore globale un Occidente più coeso nel confronto con la Cina è un fattore positivo, nessuno dei due contendenti globali punta alla distruzione dell’altro, e un asse America-Europa più solido può accelerare il processo di modernizzazione di mercati ed economie cinesi e anche in generale emergenti. Serve una piattaforma condivisa almeno nelle grandi linee, che si potrebbe cominciare a costruire al G20 di novembre a Roma, con l’italiano Mario Draghi nel ruolo di ‘capocantiere’.
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