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donald Trump

Uno ‘stellone’ americano?

Il nuovo corso italiano nasce con l’ostilità di una parte dell’Europa, ma tra i sorrisi che si scambiano Conte e Gentiloni e qualche simpatia che filtra da Washington. Dove intanto Trump continua a collezionare successi.

4 Giugno 2018 08:39

A Marcel Proust servirono sei volumi per andare alla ricerca del tempo perduto ma uno solo bastò per il tempo ritrovato. La politica italiana ha avuto bisogno di una decina di settimane per andare alla ricerca del buon senso perduto ma ne è bastata una per ritrovarlo. Il lieto fine è fotografato dal sorridente e cordiale passaggio della campanella da Gentiloni a Conte, l’opposto del gelido passaggio di consegne tra Letta e Renzi a febbraio del 2014, ma anche dalla reazione positiva dei mercati e dall’annuncio di ‘missione compiuta’ di Marchionne dopo 14 anni alla guida di Fiat. Vale la pena di ricordare che la prima mossa importante del manager italo-canadese fu il licenziamento dell’austriaco Herbert Demel, a cui Umberto Agnelli aveva affidato l’auto, per prendere direttamente le redini del business più importante del gruppo torinese. Marchionne ha trovato la strada del rilancio e del successo oltre Atlantico. Oggi il nuovo governo italiano gode sicuramente di più simpatie a Washington che non a Berlino o Bruxelles. Per tutto il periodo della guerra fredda fino alla caduta del muro di Berlino l’Italia si è avvantaggiata di un rapporto speciale con gli americani, perché era una pedina fondamentale sulla linea di confine con l’impero sovietico e i suoi alleati. Si può immaginare che qualcosa del genere si possa ripetere nell’era delle guerre commerciali di Trump?

SINGAPORE, SINGAPORE!


Lasciamo l’interrogativo aperto e andiamo a Singapore, come cantavano i Nuovi Angeli nel 1972, dove ormai sembra quasi certo che il 12 giugno Trump andrà a ricevere dalle mani del picchiatello Kim l’impegno a denuclearizzare la penisola coreana con la benedizione di Pechino. Se gli riesce, magari in cambio di generose concessioni commerciali ai cinesi, potrà aggiungere un altro trofeo alla lista dei successi che continua a infilare, per bravura, fortuna o un mix dei due. L’ultimo è il dato stellare del job report americano pubblicato venerdì, che ha messo in fila una serie di record: la serie più lunga di sempre (92 mesi) in termini di creazione di posti di lavoro, un tasso di disoccupazione ai minimi da vent’anni con la disoccupazione dei lavoratori neri ai minimi di sempre. Il New York Times, decisamente un giornale non amico di The Donald, ha titolato: ‘Nuova pietra miliare nel job report segnala un’economia vibrante’. La riforma fiscale doveva rivelarsi un boomerang per la Corporate America, così come la politica commerciale aggressiva con i principali partner. In USA non se ne sono accorti, le imprese continuano ad assumere e investire alla grande in tutti i settori: dal manifatturiero ai trasporti, dalla sanità al commercio (stiamo sempre attingendo dall’autorevole giornale liberal della grande mela).

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In attesa di vedere se Trump ce la fa anche a Singapore e magari poi riesce a replicare con l’Iran piegando a suon di dazi le resistenze europee, Wall Street continua a recuperare, con lo S&P 500 che ha ridotto a meno del 5% la distanza dal record di tutti i tempi segnato il 26 gennaio. Il Nasdaq è ancora più vicino ai massimi storici che ormai sono solo a una trentina di punti di distanza. Lo scenario non potrebbe essere più favorevole per Jay Powell, che riunisce il FOMC della Fed martedì e mercoledì della settimana prossima e potrà fare il previsto quartino in scioltezza, magari mettendone in cantiere un altro paio prima di fine anno. Se per Powell la strada è in discesa, per Mario Draghi il compito continua a essere titanico. A differenza di quello che succede a Washington, qui la politica non lo aiuta, anzi gli rema contro. I tedeschi continuano a fare i sordi alle richieste congiunte Draghi-Macron di andare avanti con l’unione bancaria e con il fondo europeo di emergenza, nonostante le sofferenze inflitte all’industria teutonica dai dazi di Trump e alle banche teutoniche dalla Federal Reserve. Il gioco di scaricare i problemi sulle spalle dell’Italia populista per ora non sembra riuscito, anche se non è finito. Prima o poi qualcuno a Berlino dovrà prendersi la giusta parte di responsabilità per quello – sempre di più – che non funziona nell’Unione.

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BOTTOM LINE


Torniamo dove siamo partiti. I sorrisi che si sono scambiati Gentiloni e Conte al passaggio della campanella presidenziale ci inducono a una previsione che probabilmente non troverà conferma sui giornali ma che ci sentiamo di azzardare: il numero di telefono che il nuovo premier comporrà più frequentemente nelle prossime settimane per chiedere consiglio sarà probabilmente proprio quello del suo predecessore a Palazzo Chigi. E magari ogni tanto anche alla Casa Bianca per capire se va tutto bene.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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