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John Greenwood (Invesco): Quantitative easing, un errore comprare titoli dalle banche

Crescita, inflazione e occupazione: l’analisi. “Sono le politiche monetarie a incidere sui prezzi, non quelle fiscali”.

28 Settembre 2017 10:51
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Inflazione, quantitative easing, crescita: sono alcuni dei temi toccati da John Greenwood, Chief Economist di Invesco, nel corso dell’incontro annuale di Invesco con un gruppo selezionato di giornalisti e media europei. L’analisi è partita dalle attese di inflazione, ma forse la considerazione più netta dell’esperto economista ha riguardato l’approccio al quantitative easing sulle due sponde dell’Atlantico.

Secondo Greenwood, infatti, lo scarso successo della politica monetaria attuata dalla Banca Centrale Europea (BCE) è dovuto alla scelta di acquistare titoli di Stato direttamente dalle banche. Ciò, nell’idea della BCE, avrebbe probabilmente dovuto portare a un incremento dei prestiti, seguito da consumi e quindi, in ultima analisi, da un aumento dell’inflazione. Ma in realtà, anche a causa delle nuove regolamentazioni che hanno interessato le banche dopo la crisi del 2008, questa ‘ondata’ di prestiti non è arrivata.

“L’aumento dell’inflazione nell’Eurozona registrato nei mesi scorsi – ha spiegato Greenwood – è principalmente dovuto all’incremento dei prezzi delle commodity”. Eppure, per quanto riguarda gli USA, l’ascesa di Trump e l’aumento dell’occupazione avevano illuso i mercati, facendo pensare a una robusta ripresa dell’inflazione che di riflesso avrebbe dovuto investire anche l’Eurozona. Il motivo lo ha spiegato lo stesso Greenwood: “Trump ha promesso tagli delle tasse e investimenti in infrastrutture, azioni che avrebbero comportato un aumento del deficit statale che, secondo molti osservatori, avrebbe portato a un aumento dell’inflazione”.

Ma dati alla mano Greenwood ha sottolineato che il collegamento diretto tra indebitamento dello Stato e inflazione è un “mito da sfatare”, come dimostra l’esperienza di Reagan. Nel 1980 e nel 1981, infatti, il rapporto tra deficit e PIL era rispettivamente a – 1,3% e – 2,8% mentre l’inflazione galoppava a + 14,8% e + 11,8%. Al contrario, con un rapporto salito a -5,9% nel 1986, l’inflazione era poco sopra l’1%.

[caption id="attachment_118918" align="alignnone" width="990"]Fonte: Thomson Datastream (2017) Fonte: Thomson Datastream (2017)[/caption]

L’altro “mito” che ha provocato attese sull’inflazione è stato l’aumento dell’occupazione che, secondo la “curva di Phillips”, ha come conseguenza la crescita dell’inflazione. Ebbene, negli ultimi anni la crescita dell’occupazione non ha avuto ricadute sui prezzi poiché, secondo Greenwood, “si tratta di una mera osservazione empirica” e non di un rapporto verificato.

[caption id="attachment_118919" align="alignnone" width="989"]Fonte: Invesco (agosto 2017) Fonte: Invesco (agosto 2017)[/caption]

“Non sono le politiche fiscali a influire sull’inflazione – ha detto l’economista di Invesco – ma le politiche monetarie”. E nei prossimi mesi bisognerà osservare da vicino l’azione della Fed, che si prepara a ridurre il bilancio e che, secondo Greenwood, potrebbe portare effetti benefici se “non verranno commessi errori”. In ogni caso, la riduzione del bilancio della Fed rischia di provocare un rallentamento dell’inflazione.

Parlando dal Buckinghamshire, Greenwood si è soffermato anche sul Regno Unito sostenendo, tra le altre cose, che durante i negoziati per la Brexit la sterlina sarà caratterizzata da volatilità. Per quanto riguarda l’Europa, il capo economista di Invesco stima una crescita moderata ma costante per un paio di anni caratterizzata da inflazione ancora bassa.

Europa che, secondo Nick Mustoe, Chief Investment Officer di Invesco, rappresenta al momento una interessante opportunità di investimento poiché, nei prossimi 5 anni, è in procinto di verificarsi “un cambio di leadership nel settore azionario” in virtù dei grandi margini di recupero che, a differenza degli USA, caratterizzano l’Eurozona. Ed è positivo sul Vecchio Continente anche Jeff Taylor, Head of European Equities di Invesco, secondo il quale “l’euro debole non è una priorità per la crescita dell’Europa” che, inoltre, è favorita dall’essere lontana dai rischi geopolitici.
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