BCE
Perché le Borse stavano crollando da inizio anno
25 Gennaio 2016 11:14

rebbe esserci stata una forte apparente contraddizione tra gli outlook 2016 sui mercati finanziari pubblicati a fine 2015 dalle principali case d’investimento internazionali e il tracollo degli indici di Borsa da inizio anno. Infatti, sebbene nessun asset manager ipotizzava rialzi robusti per i mercati azionari, tutti (o quasi) ritenevano che la crescita economica globale fosse destinata ad essere leggermente migliore rispetto al 2015 e che l’asset class azionaria avrebbe fatto meglio di quella obbligazionaria, se non altro perché i tassi di interesse dei titoli di stato e dei bond di alta qualità è ai minimi storici. Non solo.
Secondo alcune statistiche di mercato, i portafogli dei grandi investitori internazionali (fondi pensione, fondi assicurativi, investment bank, fondi d’investimento) non mostravano a fine 2015 nessuna eccessiva esposizione verso l’azionario. A dispetto di tutto questo, in sole tre settimane, l’Eurostoxx ha perso il 20%, il Ftsemib il 25% e l’S&P500 il 10%. Ma allora chi ha venduto in modo tanto violento nelle prime tre settimane di gennaio?
Per cercare di spiegare quanto è accaduto sui mercati finanziari occorre partire dal calo del petrolio, anzi da quella che, in gergo tecnico, viene chiamata «capitolazione». Infatti il prezzo del greggio, che è sceso del 50% nel 2014 e del 34% nel 2015, da inizio anno ha perso un ulteriore 30% avvicinandosi ad ampie falcate a quota 20 dollari al barile. Se si tiene conto che già a 30 dollari nessun paese è a break even fiscale (nemmeno Arabia Saudita, Iran e Iraq che pure possono estrarre a prezzi bassissimi) si capisce che la situazione è insostenibile non soltanto per i tanti produttori di shale oil USA. Ecco allora che il drastico ridimensionamento derivante dalle (mancate) entrate petrolifere costringe i fondi sovrani (cioè i fondi che i paesi produttori usano come cassaforte finanziaria per investire i proventi petroliferi) dei principali paesi produttori di greggio a vendere gli asset in portafoglio per fare cassa: un flusso ingente che è confluito in un mercato dove i compratori sono pochi e l’avversione al rischio è drasticamente diminuita.
L’ampia forbice tra offerta e domanda di titoli in Borsa tende ad amplificare le perdite che si rincorrono di giorno in giorno. Per quanto concerne poi il vantaggio economico per i paesi importatori di petrolio c’è da dire che ci vuole del tempo prima che questo vantaggio si trasferisca nelle tasche dei consumatori. Inoltre, visto il contesto economico ancora precario, non è affatto detto che il tutto si traduca in maggiori consumi: anzi, alcune analisi hanno dimostrato che le famiglie, dopo anni di crisi in cui hanno dovuto attingere ai risparmi, hanno approfittato delle entrate aggiuntive per rimpinguare il proprio polmone finanziario. Cosa potrebbe spezzare queste spirale perversa dei mercati?
Innanzitutto una stabilizzazione e, successivamente, una ripresa del prezzo del petrolio che, però, non sembrano ancora all’orizzonte: vedremo nelle prossime settimane se il minimo toccato il 20 gennaio può essere quello da cui le quotazioni possono ripartire. In seconda battuta, potrebbero giovare notizie positive sul versante Cina (rallentamento graduale di Pechino e renminbi stabile): ma anche qui è probabile che, almeno per tutto il primo semestre, non si registrino grandi progressi. Infine, le banche centrali potrebbero adottare ulteriori misure di allentamento quantitativo (Bce e Bank of Japan) o di raffreddamento della politica di rialzo dei tassi (Fed). Vedremo se, come ha dichiarato Draghi la scorsa settimana in conferenza stampa, saranno i banchieri centrali a salvare ancora una volta i mercati.
Secondo alcune statistiche di mercato, i portafogli dei grandi investitori internazionali (fondi pensione, fondi assicurativi, investment bank, fondi d’investimento) non mostravano a fine 2015 nessuna eccessiva esposizione verso l’azionario. A dispetto di tutto questo, in sole tre settimane, l’Eurostoxx ha perso il 20%, il Ftsemib il 25% e l’S&P500 il 10%. Ma allora chi ha venduto in modo tanto violento nelle prime tre settimane di gennaio?
Per cercare di spiegare quanto è accaduto sui mercati finanziari occorre partire dal calo del petrolio, anzi da quella che, in gergo tecnico, viene chiamata «capitolazione». Infatti il prezzo del greggio, che è sceso del 50% nel 2014 e del 34% nel 2015, da inizio anno ha perso un ulteriore 30% avvicinandosi ad ampie falcate a quota 20 dollari al barile. Se si tiene conto che già a 30 dollari nessun paese è a break even fiscale (nemmeno Arabia Saudita, Iran e Iraq che pure possono estrarre a prezzi bassissimi) si capisce che la situazione è insostenibile non soltanto per i tanti produttori di shale oil USA. Ecco allora che il drastico ridimensionamento derivante dalle (mancate) entrate petrolifere costringe i fondi sovrani (cioè i fondi che i paesi produttori usano come cassaforte finanziaria per investire i proventi petroliferi) dei principali paesi produttori di greggio a vendere gli asset in portafoglio per fare cassa: un flusso ingente che è confluito in un mercato dove i compratori sono pochi e l’avversione al rischio è drasticamente diminuita.
L’ampia forbice tra offerta e domanda di titoli in Borsa tende ad amplificare le perdite che si rincorrono di giorno in giorno. Per quanto concerne poi il vantaggio economico per i paesi importatori di petrolio c’è da dire che ci vuole del tempo prima che questo vantaggio si trasferisca nelle tasche dei consumatori. Inoltre, visto il contesto economico ancora precario, non è affatto detto che il tutto si traduca in maggiori consumi: anzi, alcune analisi hanno dimostrato che le famiglie, dopo anni di crisi in cui hanno dovuto attingere ai risparmi, hanno approfittato delle entrate aggiuntive per rimpinguare il proprio polmone finanziario. Cosa potrebbe spezzare queste spirale perversa dei mercati?
Innanzitutto una stabilizzazione e, successivamente, una ripresa del prezzo del petrolio che, però, non sembrano ancora all’orizzonte: vedremo nelle prossime settimane se il minimo toccato il 20 gennaio può essere quello da cui le quotazioni possono ripartire. In seconda battuta, potrebbero giovare notizie positive sul versante Cina (rallentamento graduale di Pechino e renminbi stabile): ma anche qui è probabile che, almeno per tutto il primo semestre, non si registrino grandi progressi. Infine, le banche centrali potrebbero adottare ulteriori misure di allentamento quantitativo (Bce e Bank of Japan) o di raffreddamento della politica di rialzo dei tassi (Fed). Vedremo se, come ha dichiarato Draghi la scorsa settimana in conferenza stampa, saranno i banchieri centrali a salvare ancora una volta i mercati.
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