Contatti

Alaska

Gli americani pescano il proprio salmone ma mangiano quello cinese

6 Agosto 2014 09:10
financialounge -  Alaska cina esportazioni giappone importazioni Paul Greenberg salmone USA
Bagnata dall’oceano, più boscosa al nord e più assolata al sud, la costa pacifica è ricchissima di salmoni. Lo stato più “prolifero” è attualmente l’Alaska, mentre agli inizi del ‘900 anche California del Nord, Oregon e lo Stato di Washington erano molto pescose, prima che alcuni interventi del New Deal, nel corso degli anni ’30 e ’40, contaminassero l’habitat degli organismi acquatici.

Ogni anno l’oceano della costa statunitense fornisce centinaia di milioni di chili di salmone, uno dei pesci più quotati dai nutrizionisti per l’importante contenuto di proteine. Ogni anno, gli americani ne consumano tonnellate. Tonnellate che però generalmente non appartengono a quelle pescate lungo la costa, ma sono importate.

Il principale motivo è rappresentato dalla ritrosia nelle attività di pulitura del pesce da parte dei pescatori americani. Proprio per questo motivo il pescato americano viene esportato in Cina, dove viene pulito ad un costo di manodopera nettamente inferiore a quello statunitense, per poi ritornare negli USA ed essere pronto per la commercializzazione secondo gli standard americani.

Il commercio del salmone si configura pertanto tramite una sorta di struttura circolare: gli USA lo esportano, la Cina lo tratta, gli USA lo reimportano per servirlo a tavola in filetti già pronti. In realtà, attualmente, rispetto agli anni passati, il salmone esportato torna sempre meno in territorio americano: la maggior parte viene venduta sul mercato cinese la cui neo-middle class è sempre più consumatrice di questo tipo di prodotto, oppure viene a sua volta esportata in Giappone.

Il pesce importato dalla Cina è da tempo nel mirino della FDA (Food and Drug Administration) e delle organizzazioni salutiste per via delle modalità di allevamento e pulitura dei pesci, nei cui prodotti finali sono state recentemente trovate tracce di prodotti chimici e potenzialmente cancerogeni,. Diverso invece il il pesce proveniente dal Giappone, terra natale del sushi, che rispetta altissimi standard qualitativi.

In realtà, i problemi sulla tossicità del salmone stanno riguardando da qualche tempo anche il pesce autoctono. Tra i salutisti che lanciano l’allarme, lo scrittore e pescatore Paul Greenberg, che nel libro “Four fish - Il futuro dell'ultimo cibo selvatico” analizza quattro tipi di pesce tipicamente presenti sulla tavola dei consumatori: salmone, branzino, merluzzo e tonno. Il libro mette in evidenza il rapporto tra produttori, industrie e consumatori con il mondo acquatico che, secondo l’autore, si contraddistingue per il mancato rispetto della natura ed un atteggiamento in grado di compromettere anche la qualità e le proprietà dei cibi che arrivano in commercio.

Greenberg si schiera a favore del “pesce selvatico” tipico delle economie locali sempre più in difficoltà nei confronti dei neomercati della pesca più “tecnologica” e soprattutto contro la manipolazione genetica degli organismi.
A Prince Edward Island, un’isola sulla costa orientale del Canada definita da molti “la terra di Anna dai capelli rossi”, tra campi di patate, prati e piccole case, sorgono i laboratori di AquaBounty Technologies, società che si occupa proprio della manipolazione genetica degli organismi. Attraverso uno dei suoi recenti progetti, AquAdvantage, la compagnia ha di recente dato vita al “salmone 2.0”, che si contraddistingue per la sua dimensione, doppia rispetto a quello oceanico, e in grado di essere immesso sul mercato dopo soli 2 anni anziché i canonici 3 anni. La FDA sembrerebbe propensa a dare il via libera al commercio del salmone AquAdvantage; ha già dichiarato infatti lo scorso dicembre che non arrecherebbe danni all’ambiente.

Eppure i detrattori sono parecchi, scettici riguardo alla nocività del salmone alterato, e a loro supporto arrivano alcune grandi catene della grande distribuzione che, cavalcando l’aumento dell’attenzione verso l’alimentazione sana, dichiarano di voler inserire nelle etichette alimentari una chiara indicazione dell’alterazione genetica. Come Greenberg, molti propendono per una maggiore concentrazione di sforzi per supportare le attività di pesca in Alaska, puntando sulla pesca selvatica ed intensificando i controlli sui prodotti per una maggior qualità e sicurezza dei cibi.
Questo favorirebbe l’industria americana e, allo stesso tempo, salvaguarderebbe l’ambiente.
Share:
Trending