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Protezionismo, la Cina a lezione dagli Usa del XIX secolo

Hepworth (GAM Investments) paragona le scelte cinesi a quelle americane agli albori dell’industrializzazione del Paese: in ogni caso, il protezionismo non favorisce la crescita globale

di Redazione 28 Maggio 2019 13:30

La guerra commerciale tra Washington e Pechino è tornata prepotentemente sotto i riflettori all’inizio di questo mese dopo gli annunci dei nuovi dazi di Trump sulle merci importate dalla Cina e i rigurgiti di protezionismo. Abbiamo già commentato nell’articolo “Dazi, un film già visto? La Cina come il Giappone negli anni ‘80” come la situazione attuale ricordi molto quella già sperimentata nella seconda metà degli anni ’80 tra Stati Uniti e Giappone. Ora, Charles Hepworth, Investment Director di GAM Investments, ci propone un’altra prospettiva: l’attuale protezionismo adottato dalle autorità di Pechino ricalca quello statunitense del XIX secolo.

COME GLI STATI UNITI NEL XIX SECOLO


“All’inizio del proprio processo di industrializzazione nel XIX secolo gli Stati Uniti implementarono lo stesso approccio, adottando il protezionismo per l’economia domestica. Di conseguenza siamo convinti che Pechino non accetterà per nessuna ragione le richieste di Washington” spiega Charles Hepworth. L’esperto prevede che la Cina metta in campo stimoli capaci di rispondere al rallentamento della propria economia e agli effetti dei dazi: questo dovrebbe riuscire a rideterminare condizioni più favorevoli all’assunzione del rischio da parte degli investitori.

IL PALLINO IN MANO A PECHINO


Tra l’altro, a prescindere dal protezionismo, Pechino sembra avere comunque il pallino in mano. Senza usare mezzi di forte persuasione, come la svalutazione dello yuan, o la dismissione di un quota di titoli di stato statunitensi in portafoglio al fine di far lievitare i tassi di interesse Usa da pagare ai creditori, la Cina può permettersi un atteggiamento attendista: quello cioè di un’eventuale uscita di scena del presidente Trump nelle elezioni del prossimo anno.

UN CONTO DA 135 MILIARDI DI DOLLARI


Resta il fatto che l’introduzione di dazi comporta costi aggiuntivi a carico dei consumatori statunitensi. Se il presidente Trump, dopo l’aumento dal 10% al 25% dei dazi sulle merci importante dalla Cina per 200 miliardi di dollari, decidesse di estendere l’aliquota del 25% a tutte le importazioni cinesi, il conto a ‘carico’ delle famiglie consumatrici americane ammonterebbe a 135 miliardi di dollari all'anno.

PERICOLO INFLAZIONE E RIALZI FED


Tuttavia, come fa notare Charles Hepworth, più di questa pur considerevole somma che comunque non sarebbe determinante rispetto al gettito fiscale totale negli Stati Uniti di oltre 5mila miliardi di dollari, potrebbe impattare l'effetto sull'inflazione che, in modo immediato, potrebbe registrare un incremento dei prezzi al consumo tra lo 0,3% allo 0,5% circa. “Un aumento che potrebbe rivelarsi sufficiente a spingere la Fed verso una posizione più aggressiva nella propria politica monetaria rispetto a quella annunciata all’inizio di quest’anno” puntualizza l’esperto. Secondo il quale, a pagare il conto sarebbero anche le imprese statunitensi che, secondo uno studio della Fed, dovrebbero accollarsi un incremento dei costi di finanziamento pari all’1%.

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GLI ASPETTI PIÙ CRITICI


Precisato tutto questo, Charles Hepworth ritiene probabile che la Cina, nel rispetto della politica di protezionismo, si concentri sugli aspetti più critici dal punto di vista degli oppositori di un’intesa tra le parti: i sussidi statali che determinano un vantaggio sleale , e le joint venture che, secondo gli antagonisti, sono il veicolo tramite il quale Pechino realizza il furto di proprietà intellettuale.

OSCILLAZIONI DI MERCATO INGIUSTIFICATE


“Certo” ammette, Charles Hepworth, “le nuove tensioni nei negoziati tra Usa e Cina e il vento del protezionismo non favoriscono una ripresa del ritmo di espansione della crescita globale. Tuttavia, sebbene questo nuovo scenario stia rovesciando le aspettative positive che si erano delineate all’inizio di quest'anno, non riteniamo in alcun modo giustificata l'ultima oscillazione del mercato”.
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