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Inflazione, le previsioni per il 2018: 2% negli USA e 1,5% in Europa

Uno shock da inflazione potrebbe portare a un aumento dei tassi con conseguenze piuttosto negative sul mercato azionario. Ma per ora non sembra all’orizzonte.

8 Maggio 2018 12:10
financialounge -  Columbia Threadneedle Investments disinflazione Europa inflazione Mark Burgess occupazione USA

Nell’attuale contesto di crescita, sebbene stia aumentando il supporto dei fondamentali economici e aziendali, l’attenzione del mercato è principalmente rivolta alle prospettive inflazionistiche e sulla conseguente reazione delle banche centrali. Uno shock inflazionistico potrebbe infatti portare a un aumento dei tassi (e, a cascata, dei rendimenti del mercato obbligazionario) molto meno graduale di quello sperimentato finora dalla Federal Reserve americana, con conseguenze piuttosto negative sul mercato azionario.

TUTTI GLI OCCHI PUNTATI SULL’INFLAZIONE


“A breve termine, pertanto, l’attenzione deve essere puntata sull’inflazione, sui fattori che la generano e sui possibili sviluppi” fa sapere Mark Burgess, Vice CIO Globale e CIO EMEA di Columbia Threadneedle Investments, convinto che, a parità di condizioni, il principale driver dei prezzi al consumo sarà da ricercarsi nell’andamento delle retribuzioni. D’altra parte, tuttavia, una molteplicità di forze disinflazionistiche strutturali potrebbe prevalere nel breve termine sull’impatto dell’attività economica, attenuando in tal modo l’inflazione.

I FATTORI DISINFLAZIONISTICI


“La risultante è che prevediamo una stabilizzazione dell’inflazione al 2% negli Stati Uniti e intorno all’1,5% nell’Eurozona nel 2018, dovuta in parte ai citati fattori disinflazionistici, che sono vari e molteplici. È importante notare come tali fattori stiano continuando ad avere un effetto significativo sull’occupazione e sulla crescita dei salari, al punto da mettere in crisi la validità del modello economico della curva di Phillips” puntualizza Mark Burgess.

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LA CURVA DI PHILLIPS


La curva di Phillips, indica la relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e l’indice dei prezzi al consumo: minore è il tasso di disoccupazione, maggiore è l’inflazione, in quanto il potere negoziale dei lavoratori aumenta al diminuire dell’offerta di lavoro, e viceversa. Per quanto la curva di Phillips possa essere catalogata come una metodologia semplificata per spiegare come si producono gli aumenti salariali, occorre segnalare alcuni aspetti anomali che si sono venuti a creare dopo un periodo tanto prolungato d’inflazione estremamente bassa.

MINORE POTERE CONTRATTUALE


Sembra infatti (come si è notato di recente in Germania dove la disoccupazione è ai minimi) che le aspettative dei lavoratori nella fase di negoziazione dei salari si siano ridotte. In secondo luogo, nel settore pubblico, soprattutto in Europa, anche a seguito di politiche di bilancio votate all’austerity, le richieste di adeguamenti salariali siano state quasi inesistenti. Con il risultato che tale tendenza ha finito per estendersi anche al settore privato, anche per effetto di un minore potere contrattuale da parte delle associazioni sindacali (preoccupate più dei posti di lavoro che non tanto degli incrementi salariali). Inoltre resta su livelli sostenuti il grado di sottoccupazione nell’economia.

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AUMENTO DEL LAVORO PART TIME


“Questo è in parte il risultato dell’aumento del lavoro part-time e dei contratti flessibili, nonché delle riforme del mercato del lavoro a livello europeo, che hanno reso più semplice per le aziende l’adozione di forme di lavoro flessibile” specifica Mark Burgess segnalando come stia crescendo il lavoro part-time involontario (soprattutto negli USA e in Europa) e la quota di lavoratori con contrati di lavoro atipici rispetto al periodo pre crisi (in Giappone).
“La maggiore flessibilità dei mercati del lavoro ha comportato una generale diminuzione delle retribuzioni e delle garanzie per i lavoratori: chiaramente, è meno probabile che il lavoratore part-time chieda un aumento di stipendio perché si trova in una posizione più precaria” spiega Mark Burgess.

MAGGIORE INCERTEZZA SUL FUTURO


Il tutto con una ulteriore aggravante derivante dalla maggiore incertezza sul futuro: nel periodo post-crisi, le aziende assumono meno lavoratori a tempo pieno. E anche negli Stati Uniti, dove la scorsa settimana è emerso che il tasso di disoccupazione è sceso al 3,9%, si registra (dal 2008 – 2009) il crollo del tasso di partecipazione per il semplice fatto che le competenze dei lavoratori rimasti disoccupati non erano più oggetto di richiesta mentre i settori in cui lavoravano hanno subito un drastico ridimensionamento.

LAVORO A SINGOLA PRESTAZIONE


E, se la partecipazione è tanto ridotta, l’offerta potenziale di lavoro può rispondere a un aumento della domanda di forza lavoro e indebolire le richieste salariali di chi già lavora. In pratica, il lavoro tende sempre più ad essere remunerato non più a ore, a settimane o a mese, quanto piuttosto a singola prestazione e questo è chiaramente uno sviluppo meno favorevole per il lavoratore e più positivo per il capitale.

AUMENTI RETRIBUTIVI SOLO PER I LIVELLI PIU’ ALTI


“In ultima analisi, questo significa che gli aumenti salariali si verificano principalmente ai livelli più alti, mentre il divario di competenze comporta una mobilità sempre più diffusa dai lavori meno pagati a quelli più pagati” conclude Mark Burgess per il quale questa situazione potrebbe anche cambiare nel corso del tempo (a mano a mano che le nuove generazioni digitali diventeranno una componente crescente dell’economia) ma non certo a breve termine.
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