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Corea del Nord

Trump si gioca una partita globale

Mentre a Wall Street il mare continua a essere mosso ma non certo in burrasca, la Casa Bianca tenta di venire a capo di Corea e Medio Oriente in tempo per le elezioni di mid-term di novembre.

9 Aprile 2018 08:40
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Come da previsioni, mare sempre mosso a Wall Street e sulle altre piazze globali, con oscillazioni rapide e violente, anche settimana scorsa, che replicano con puntualità quanto messo in scena da fine gennaio. Ogni volta tv e giornali sfornano la spiegazione pronta, il rally di giovedì con l’allentamento delle tensioni sui dazi tra USA e Cina, la caduta di venerdì con una nuova offensiva americana. È il luogo-comunismo imperante sui media globali, un passaparola che ha sempre la risposta giusta e non ammette contraddizioni. Quando la fase attuale di turbolenza è iniziata a fine gennaio mancava ancora più di un mese al lancio dell’offensiva trumpiana sui dazi. Allora il colpevole erano i tassi che avrebbero dovuto schizzare a causa di un deficit federale americano destinato a sua volta a schizzare a seguito della riforma fiscale di Trump. Come abbiamo già detto, il problema è che il Toro si è seduto dopo l’ultima corsa a cavallo dell’anno mentre l’Orso non trova la forza per uscire dalla gabbia. Si andrà avanti a vendere i rally e rientrare sugli storni ancora per un po’ di tempo. Quello che può cambiare veramente le cose è il fattore esterno.

TATTICHE DA PRE-PARTITA


Allora proviamo a guardarci dentro, cominciando proprio dal confronto tra Washington e Pechino. La guerra dei dazi in corso somiglia alla pretattica degli allenatori prima di una partita importante, tipo la finale di Champions. Si lanciano falsi segnali, si fanno trapelare indiscrezioni fuorvianti sperando di far sbagliare l’avversario. Poi ci si gioca tutto in 90 minuti, salvo supplementari. Il campo su cui si confronteranno le due super-potenze entro maggio (non ci sono date precise, e un rinvio è possibile) è da qualche parte vicino al 38esimo parallelo, quello che segna il confine tra le due Coree. In campo scenderà uno solo dei due contendenti, l’americano Donald Trump, che incontrerà il picchiatello “rocket man” Kim alla presenza di rappresentanti del Sud. L’altro, il presidente cinese Xi, dovrebbe restarsene a Pechino, ma la partita se la sta giocando lui, che ha in mano il telecomando di Kim. Capire chi vince non sarà facile. Mettiamo che Kim accetti di togliere il dito dal bottone rosso della bomba e di accettare un programma di denuclearizzazione. Cosa incassano i cinesi? Un accordo commerciale favorevole con gli americani? Quello che sembra abbastanza chiaro è che si tratta di una sola partita.

ATTENTI A QUEI TRE


Passiamo all’altro calderone in ebollizione, il Medio Oriente. La foto scattata mercoledì ad Ankara, con il presidente turco Erdogan che tiene strette nelle sue le mani dello Zar Putin e del presidente iraniano Rouhani, con i tre che dichiarano solennemente l’amicizia per il popolo siriano e si impegnano a un cessate il fuoco duraturo, fa una certa impressione. La prima domanda è, ma la NATO esiste ancora? Fino a prova contraria la Turchia non solo ne fa parte, ma ne è un pilastro, mentre Putin rappresenta la super-potenza per difendersi dalla quale l’Alleanza è stata inventata. La seconda riguarda chi sia il rappresentante dei siriani. Putin e Rouhani appoggiano Assad, Erdogan lo vuol rimuovere. Tutti e tre sono d’accordo sul fatto che bisogna cacciare i ‘terroristi’ dalla Siria. Intanto l’iraniano supporta tramite Hamas la rivolta a Gaza. Comunque abbiamo uno schieramento a tre. Altri tre stanno rinsaldando legami sempre più stretti – sauditi, israeliani e americani – con l’Egitto a fare da rinforzo. I due schieramenti sembrano viaggiare in rotta di collisione, ma non su tutto. Potremmo sintetizzare così: Israele e Iran sono in prima linea sul fronte di Gaza, Arabia e Turchia si confrontano ma non combattono apertamente in Siria, USA e Russia sono i grandi sponsor dei due fronti.

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L’EREDITÀ DI BUSH E OBAMA


Il problema di Trump in Medio Oriente è più complicato di quello coreano. In 17 anni, dall’invasione dell’Afghanistan dopo l’11 settembre, gli americani hanno speso 7.000 miliardi di dollari e perso decine di migliaia di militari nelle guerre mediorientali. L’idea iniziale di Bush figlio era stabilizzare la regione esportando con le buone o le cattive il modello democratico occidentale. L’esperimento è culminato con la disastrosa primavera araba incoraggiata da Obama. Oggi il risultato è un cumulo di macerie e nessun vantaggio visibile acquisito dagli USA. Il bicchiere mezzo pieno è la sconfitta dell’ISIS. Quello mezzo vuoto, si fa per dire, è un Putin che dà le carte, una Turchia praticamente fuori dalla NATO e un Iran sponsor dei conflitti in Siria, Yemen, Gaza, Libano, etc. Trump ha bisogno di una exit strategy che non sia una fuga ma l’affidamento della stabilizzazione in mani forti e amiche. L’asse nascente Riyadh-Tel Aviv potrebbe funzionare?

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BOTTOM LINE


Sembra che The Donald intenda giocarsi la partita sullo scacchiere globale tra maggio e l’autunno, in tempo per vendersi un risultato positivo alle elezioni di mid-term di novembre. Se ci riesce, nel 2019 gli effetti della riforma fiscale sull’economia potrebbero unirsi alla fiducia per una leadership geopolitica riconquistata. Ma è una strada in salita e piena di insidie. Intanto l’Europa sta a guardare, come se fosse una galassia lontana poco interessata a quello che succede sul pianeta Terra.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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