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bolla speculativa

E se non ci fosse niente da capire?

Si moltiplicano le analisi sulla nuova bolla pronta a esplodere. La storia dice che i prezzi degli asset non sono mai stati così alti, e sul mercato c’è un po’ di nervosismo. Ma forse è tutto più semplice.

13 Novembre 2017 09:42
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Bolla o non bolla? Il ritornello sta diventando ossessivo e gli esperti più accreditati e ascoltati si misurano in analisi elaborate e complesse per capire se i prezzi degli asset abbiano raggiunto il livello di guardia. L’andamento esitante delle borse in Europa e a Wall Street nell’ultima settimana alimenta i timori che si possa essere alla vigilia di una correzione importante, se non molto peggio. Una delle più fresche di stampa di queste analisi è quella di Martin Wolf sul Financial Times, che conia il termine “omnibubble” per indicare che i prezzi di tutti i principali asset nel mondo sviluppato sono arrivati a livelli così elevati da rendere inevitabile un crash devastante. Corollario di questa convinzione è l’identificazione del colpevole, le banche centrali che hanno gonfiato la bolla inondando di liquidità i mercati. Secondo la misura del CAPE, che sta per cyclically adjusted price earning ratio, inventata dal premio Nobel Robert Shiller, in USA il ritorno sugli investimenti finanziari è al 3,4%, un livello bassissimo raggiunto solo prima del crac del 1929 e nel 1997-2001, vale a dire le due bolle finanziarie più grandi dal 1880. Vuol dire che chi investe sull’America è disposto a pagare un prezzo altissimo per avere un ritorno minimo, soprattutto se parliamo di bond.

Wolf obietta che gli USA non sono il mondo: in Germania, Regno Unito e Giappone, ad esempio, i ritorni sono più elevati e lontani dai minimi storici e quindi i prezzi più bassi. Se dagli asset finanziari passiamo poi agli immobili, il quadro è ancora più differenziato, con i prezzi che non hanno ancora lontanamente recuperato i livelli pre-crisi in molte aree. Prezzi alti e rendimenti bassi non vuole poi dire per forza che i primi siano insostenibili. Rigirando la frittata, se i rendimenti sugli investimenti ritenuti sicuri, come i T-bond americani, sono ai minimi di quasi sempre, allora i prezzi non possono che essere relativamente alti. E che succede se le banche centrali, come sta facendo la Fed, cambiano politica e cominciano a alzare i tassi? Esplode la bolla con i tassi del T-bond a 10 anni che schizzano alle stelle? Magari anche no. I tassi a lunga non li decide la Fed ma il mercato, sulla base delle aspettative su economia e inflazione, che resta sostanzialmente assente. La conclusione di Wolf è che nulla è scontato, che i riferimenti storici servono fino a un certo punto, e che questa volta potrebbe essere diverso.

Da Wolf a Jim Reid, strategist di Deutsche Bank molto noto e stimato. In un report un po’ meno recente ma molto attuale si chiede cosa potrebbe causare la prossima crisi, quando potrebbe esplodere e come potrebbero rispondere le economie e i mercati mondiali. Anche Reid parte dalla constatazione che i prezzi degli asset globali sono alti, forse mai stati così alti. Reid fa un viaggio nel tempo fino a inizio 1800 per scoprire che un portafoglio aggregato bond-azioni nell’area che oggi corrisponde al G7 non è mai stato così costoso come oggi. Per le azioni, prezzi storicamente molto elevati possono essere giustificati da attese di crescita nominale elevata. Ma anche qui siamo vicini ai picchi del 2000, del 2007 e addirittura sopra quelli toccati alla vigilia del crash del 1929. E poi va aggiunto che la crescita nominale dell’economia non è stellare, e gli utili possono crescere più del PIL solo fino a un certo punto. Anche Reid usa il CAPE per i suoi calcoli, e arriva alla conclusione che la storia non è obbligata a ripetersi, anche se fino a che i prezzi degli asset restano così elevati resta anche il rischio di una correzione improvvisa, che potrebbe rivelarsi destabilizzante per il sistema finanziario e l’economia globale proprio perché i prezzi degli asset sono stati spinti così in alto.

Si può osservare che questi ragionamenti, pur validi e suggestivi, funzionano come se i portafogli degli investitori fossero stati costruiti ieri, con Wall Street ai massimi di sempre e i rendimenti dei bond investment grade ai minimi. Ma quei portafogli sono il frutto di stratificazioni e strategie portate avanti per anni, e in uno stesso portafoglio obbligazionario magari convive un T-bond a 10 anni preso quest’anno che rende il 2,4% con un trentennale comprato nel 2000 che da 17 anni sta rendendo il 6,5% l’anno e continuerà a farlo per altri 13 anni. Certo, se vai a comprarlo oggi lo paghi come il Rolex che portava Paul Newman alla 24 ore di Le Mans nel 1979. Ma se lo hai comprato allora lo hai pagato alla pari. Le ricostruzioni storiche degli andamenti dei mercati sono divertenti da leggere e possono stimolare suggerimenti e analogie validi anche oggi. Ma la lettura del mercato va fatta con le lenti del presente.

Bottom line. Ed ecco cosa ci dice il presente. Manca un mese e mezzo alla fine di un anno che ha dato soddisfazioni non da poco ai money manager e anche ai piccoli investitori, soprattutto chi ha puntato su Wall Street. Per il gestore fa testo la performance. Far fuori qualche titolo su cui si è sopra del 20% o oltre da inizio anno può essere una tentazione a cui è difficile resistere. Si chiama window-dressing. Certo, anche questo è un gioco che può scappare di mano se si mettono a farlo tutti. Ma la spiegazione delle esitazioni che hanno caratterizzato l’andamento delle Borse settimana scorsa forse è tutta lì. Oggi stiamo scrivendo la storia del futuro, non riscrivendo quella del passato.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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