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donald Trump

Una Federal Reserve da caro mondo antico

Trump si prepara a scegliere il nuovo capo della Banca centrale USA. Nomi a parte, la nuova gestione sarà probabilmente più difficile da interpretare e prevedere, soprattutto su tassi e dollaro.

30 Ottobre 2017 09:50
financialounge -  donald Trump Federal Reserve Janet Yellen Jerome Powell tassi di interesse USA Weekly Bulletin

La notiziona della settimana dovrebbe essere il nome del nuovo presidente della Federal Reserve. Donald Trump ha fatto sapere che renderà pubblica la sua scelta prima di partire il 3 novembre per un tour asiatico di quasi due settimane che dovrebbe servire a cementare l’isolamento della bombarola Corea del Nord. La shortlist del presidente è ridotta a cinque, tutti danno in uscita Janet Yellen a febbraio anche se Trump l’ha definita ‘terrific’, che in americano è un complimento, dopo averla incontrata alla Casa Bianca. Ne restano quattro, e il favorito è Jerome Hayden ‘Jay’ Powell, classe ‘53, avvocato, una vita spesa tra politica (sottosegretario al Tesoro di Bush padre), e private equity (Carlyle, Dillon Read). È già nel board della Fed, ce lo ha messo Obama nel 2012, ma solo per far digerire al Senato la nomina contemporanea di Jeremy C. Stein, di fede democratica. A differenza dei due predecessori Yellen e Bernanke, Jay Powell non viene dal mondo accademico e a differenza degli ultimi tre presidenti, andando indietro a Greenspan, non ha radici ebraiche. Lo segue nelle quotazioni John Taylor, un economista di Stanford molto rispettato ma che non piace a Wall Street perché percepito come troppo aggressivo sui tassi.

Non è detto che non possano trovare posto tutti e due, Powell presidente e Taylor come suo vice, visto che la poltrona del numero due è vacante da fine mese con l’uscita volontaria di Stanley Fischer, in aperta polemica con Trump. Gli ultimi due della rosa, l’ex membro del board Fed Kevin Warsh e il direttore del National Economic Council Gary Cohn, hanno poche possibilità per motivi opposti. Il primo non piace al segretario al Tesoro Steve Mnuchin, il secondo serve troppo a Trump per far passare in Congresso la sua riforma fiscale. Come va a finire? Tutto è possibile. Chiunque sia il nuovo capo della Fed, fosse anche Janet, il suo compito sarà difficile. Avrà sicuramente una delega meno ampia di Yellen e Bernanke, sarà molto più condizionato e indirizzato dalla politica. E qui viene il primo problema, perché il capo della Fed deve essere prima di tutto credibile, e l’indipendenza, almeno quella percepita, è un ingrediente indispensabile della credibilità. Ma poi c’è un secondo problema, più grande. Il nuovo chairman dovrà mettere insieme cose molto diverse, perché il mandato che gli darà Trump è un misto di ingredienti difficili da amalgamare.

Il primo ingrediente ostico è il dollaro. A The Donald non piace troppo forte, lo ha detto in tutti i modi da quando è presidente. O meglio, non gli piacciono troppo deboli le monete dei principali competitor economici: euro, yen, yuan per cominciare. Per manovrare il dollaro la Fed ha soprattutto lo strumento dei tassi di interesse, ma può muovere solo quelli a breve, dei Fed Fund, molto meno quelli che contano veramente, i tassi a lunga, a cominciare dal rendimento del T bond a 10 anni. Quello lo può muovere al ribasso comprando i T bond. Il problema è che la Fed li ha già comprati in abbondanza per 3 round di Quantitative Easing, e ora sta iniziando il processo inverso. E infine può muovere il dollaro alla vecchia maniera, intervenendo sul mercato e convincendo con la moral suasion le grandi banche che fanno il mercato a tenerlo basso. Non facile, se le banche centrali di Europa e Giappone fanno lo stesso gioco con in più il cannone ancora carico del QE.

Il secondo ingrediente che il presidente vuole in grandi quantità è la crescita economica: posti di lavoro, aziende che fanno profit e prosperano, salari che aumentano. Per sostenere la crescita, la politica userà l’arma fiscale con tasse più basse per le imprese. Ma questo vorrà dire, almeno all’inizio, deficit pubblico che sale, e investitori che chiedono un premio più alto in termini di tassi per comprare il debito americano. Anche qui un cerchio difficile da quadrare.

Il terzo ingrediente invece si chiama regolazione, soprattutto in campo finanziario e creditizio. È un ingrediente dal sapore che non piace al presidente, meno ce n’è, meglio è. E più le banche e la finanza hanno le mani libere, meglio possono sostenere la crescita e fare di nuovo grande l’America. È vero che le regole sono un problema soprattutto per il legislatore, ma, ad esempio, gli stress test se li è inventati la Fed, e non si capisce che bisogno ce ne sia visto che c’è già il mercato a premiare i bravi e punire gli incapaci. Sarà un caso che all’ultimo giro tutte le grandi banche americane hanno superato alla grande gli stress test con qualche problema solo per le europee presenti in America? E infine a Trump piace poco vedere tutti quei membri della Fed che ogni settimana se ne vanno in giro per convegni a pontificare su tutto. Il prossimo presidente, meno parla e meglio è. Lo stesso vale per i suoi colleghi.

Bottom line. Il prossimo presidente della Fed sarà probabilmente meno prevedibile e meno loquace. Non dichiarerà troppo apertamente gli obiettivi e terrà le carte coperte alla vecchia maniera. Dovremo probabilmente abituarci alla presenza di mani forti e invisibili che muovono il mercato, soprattutto dei cambi e dei tassi, prendendo di sorpresa investitori e analisti. Un mondo migliore o peggiore? Sembra un caro vecchio mondo antico.

(dalla rubrica "Caffè scorretto" della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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