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Abenomics

Il Giappone scalda i motori

E se parte il treno della Borsa di Tokyo bisogna essere pronti a salire al volo. Anche se le tante delusioni degli ultimi trent’anni tengono ancora lontano l’investitore globale.

16 Ottobre 2017 09:42
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Sono ormai quasi trent’anni che l’economia giapponese si è ammalata e che la Borsa di Tokyo è entrata in una lunghissima fase di depressione che ha allontanato gli investitori internazionali. Quella giapponese non è una crisi acuta e devastante, come quella del 2007-08 in USA e Europa, ma un’anemia languida, una stag-deflazione che non le ha impedito di restare la seconda economia del mondo sviluppato dopo gli USA e la terza del globo dopo la Cina.

Negli ultimi decenni più di una volta è sembrato che stesse uscendo dal tunnel, ma si sono rivelate attese deluse. Oggi finalmente ci siamo? Molti indicatori dicono forse sì. La cura della malattia negli ultimi anni ha avuto il nome di Abenomics, fatta di yen stampati a trilioni per finanziare un interventismo titanico dello Stato in economia e di tassi zero o negativi. Il medico che la sta somministrando da 5 anni è Shinzo Abe, che domenica 22 ottobre si ripresenta agli elettori in cerca di un nuovo forte mandato sull’onda di una fiducia delle imprese alle stelle e di una Borsa che viaggia ai massimi da oltre vent’anni.

Abe ha in programma di iniziare ad alzare le tasse dal 2019 contando su una ripresa dei consumi che dovrebbe scattare grazie al suo programma di “rivoluzione della produttività”, basata su massicci investimenti in robotica e intelligenza artificiale, e di riforma profonda della governance societaria. Già nel 2014 aveva provato a aumentare le tasse spedendo il paese in recessione. Per capire se ce la farà bisogna ovviamente guardare al mercato azionario, che tende ad anticipare l’economia. L’indice Nikkei viaggia ai massimi dal 1996, ma a differenza dei cugini di Wall Street i massimi di tutti i tempi sono ancora lontanissimi, una distanza di quasi il 100% lo separa ancora dalle vette toccate a fine 1989, al culmine della bolla azionaria e immobiliare, che lo aveva portato a sfiorare 40.000. Venerdì scorso ha chiuso a 21.155 e nella prima seduta della settimana successiva ha guadagnato altri cento punti.

Le azioni giapponesi, a differenza di quelle americane e anche europee, prezzano relativamente a buon mercato. Il return on equity è migliorato da quando è arrivato Abe nel 2012, passando dal 5% a circa l’8,4% del 2017, ma le azioni continuano a essere comprate a 1,5 volte il valore di libro, il 36% in meno rispetto alla media degli altri mercati dei paesi sviluppati. Da notare che il risveglio parziale della Borsa è molto aiutato da Bank of Japan, che ogni anno acquista oltre 50 miliardi di dollari di ETF azionari, una cosa che non succede in nessun altra parte del mondo. E l’investitore globale resta sostanzialmente assente. Anche alcuni blue chip cominciano a performare in modo molto interessante. Da inizio anno Sony è salita del 28% e il produttore di cosmetici Kose del 31%, secondo quanto riportato da FactSet.

Tokyo sembra avere molte carte in regola per diventare un’alternativa a Wall Street, quando prima o poi l’investitore penserà che è l’ora di prendere una pausa sull’America, e anche rispetto ai mercati europei che hanno corso di più e hanno caratteristiche simili, come Francoforte. Altri fattori spingono per investire sulle azioni del Sol Levante. Una è lo yen, che secondo molti osservatori resta decisamente sottovalutato rispetto a dollaro e euro. Comprare oggi titoli a sconto del 36% denominati in una valuta a sua volta a sconto ha il profilo di un buon affare. Un altro motivo è che le corporation giapponesi stanno sedute su una montagna di cash, qualcosa come 4 trilioni di dollari, che potrebbero spendere in investimenti, acquisizioni, buy back o dividendi. Certo, sotto deve esserci un’economia che torna a girare a sei cilindri e non a tre, come negli ultimi trent’anni. Nel secondo trimestre il Giappone ha viaggiato al massimo da due anni con un PIL che ha infilato la serie più lunga di rialzi trimestrali da un decennio. E l’inflazione misurata sui prezzi alla produzione comincia finalmente ad accelerare.

Ma le buone notizie vengono dalla Cina, che a settembre ha registrato un balzo del 18,7% delle importazioni che ha fatto dimezzare il surplus commerciale. Import cinese che corre vuol dire export giapponese che fa altrettanto. La Cina infatti è la seconda destinazione dopo gli USA delle esportazioni giapponesi, 130 miliardi di dollari nel 2016 e 113 miliardi rispettivamente. Ma se si sommano quelle dirette a Hong Kong, che ammontano a 34 miliardi, Pechino diventa la destinazione numero uno. Una Cina che cresce grazie ai consumi interni e agli investimenti oltre che alle esportazioni è una buonissima notizia per il Giappone, soprattutto per un Giappone capace di reinventarsi sul fronte della rivoluzione dell’automazione e del digitale, come seppe fare negli anni dai '60 agli '80 del secolo scorso su quello dell’auto e dell’elettronica.

Bottom line. Per Wall Street sembra decisamente arrivato il momento di prendersi una pausa dopo la accelerazione del mercato Toro, che regna da quasi nove anni, in atto da quasi 12 mesi. E l’investitore ha bisogno di alternative che non siano solo i mercati emergenti, che pure hanno corso tanto, e l’Europa, alle prese con l’uscita dal QE di Draghi. Il Giappone è allettante, anche se troppe delusioni hanno bruciato le aspettative in tre decenni. Bisogna guardare alla velocità e stare attenti a non decidere di salire sul treno giapponese quando è già partito. Nel Sole Levante i treni viaggiano molto veloci.
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