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Brian Hayes

Bond area dollaro, perché sovrappesare gli inflation linked

19 Marzo 2015 10:00
financialounge -  Brian Hayes disinflazione inflazione Jeremie Banet reflazione
Le tesi sull’inflazione statunitense sono oggetto di vivaci discussioni, anche alla luce del fatto che dallo scoppio della crisi finanziaria globale i dati relativi alla dinamica dei prezzi al consumo non sono mai stati così importanti come oggi. Due le convinzioni in contrapposizione tra loro: la tesi della reflazione e quella della disinflazione.
La prima è sostenuta dal Federal Reserve Open Market Committee (FOMC) che ha affermato che l’attuale basso livello dell’inflazione è principalmente dovuto a uno shock sul fronte dell’offerta di petrolio, che favorisce sia i consumatori che l’economia statunitense. Secondo la linea di pensiero della Fed, i bassi tassi d’interesse statunitensi sono perlopiù riconducibili all’incremento della domanda di titoli di Stato americani nominali, che ha compresso i loro premi al rischio. Il fatto che la "compensazione dall’inflazione" offerta dai Treasury Inflation-Protected Securities (TIPS) sia diminuita potrebbe essere ascrivibile alla domanda di titoli di Stato americani nominali a fronte dell’aumento dei premi di liquidità dei TIPS meno liquidi. Tale teoria è avvalorata dai dati sulle aspettative d’inflazione a lungo termine ricavati dalle indagini, che non hanno evidenziato variazioni significative nonostante i prezzi al consumo siano attualmente scesi al di sotto dell’obiettivo del 2% fissato dalla Fed. Infine, secondo l’istituto centrale, il costo della vita statunitense è destinato a salire in un orizzonte di medio periodo, in ragione del costante rafforzamento del mercato del lavoro e della chiusura dell’output gap.
Sul versante opposto della discussione, quello della disinflazione, si schierano invece i mercati. Gli investitori nei mercati globali del reddito fisso sembrano ricondurre (almeno in parte) l’attuale contrazione dei prezzi del petrolio al calo della domanda di oro nero e a un indebolimento dell’economia mondiale. A loro giudizio, il basso livello dei tassi d’interesse nominali statunitensi rispecchia tale debolezza economica, mentre le modeste aspettative d’inflazione sono il risultato di un orientamento restrittivo adottato prematuramente dal FOMC, pronto a innalzare i tassi d’interesse già a metà del 2015.
L’attuale prezzo di mercato dei titoli di Stato americani si fonda sul presupposto che l’inflazione sarà tenuta a bada per molto tempo da spinte deflazionistiche di lungo periodo, quali le dinamiche demografiche, il processo di deleveraging e la globalizzazione. Chi ha ragione tra le due tesi?
“Sintetizzando tutte le nostre analisi bottom-up (focalizzate sui singoli segmenti di mercato e tipologie di titoli) e top-down (basate sui dati macro economici) possiamo formulare la nostra previsione, secondo cui l’inflazione statunitense (misurata dal CPI) si attesterà tra l’1,75% e il 2% nel 2015, evidenziando un modesto miglioramento rispetto al 2014. Ritornando quindi alla domanda posta in precedenza su chi abbia ragione, i mercati o la Fed, siamo propensi a schierarci con quest’ultima” fanno sapere Jeremie Banet, Executive Vice President Gestore di PIMCO, e Brian Hayes, Senior Vice President e Gestore di PIMCO, che poi spiegano: “Attualmente forze di carattere transitorio quali il calo dei prezzi energetici e il rafforzamento del dollaro mantengono l’inflazione su livelli inferiori all’obiettivo, ma i bassi costi dell’energia favoriscono in ultima analisi i consumatori; inoltre, prevediamo un aumento dell’inflazione dei salari nell’orizzonte ciclico”.
Secondo i due manager, occorre dunque riconoscere alla Fed il merito di aver formulato previsioni perlopiù corrette sull’inflazione dall’inizio della crisi finanziaria globale. Negli ultimi sei anni i commenti sui mercati si sono incentrati sostanzialmente su come la politica monetaria non convenzionale della Fed avrebbe spinto al rialzo l’inflazione. E ora che la Fed si accinge a smorzare tale politica ultra-accomodante, una nuova schiera di bond "vigilantes" è già pronta a mettere alla prova la sua credibilità nella lotta alla deflazione.
“Non ci è tuttavia chiaro se questi acquirenti di titoli di Stato americani siano dei veri vigilantes della deflazione: potrebbero essere semplici investitori assetati di rendimenti oppure operatori orientati alla copertura dei portafogli. Le risposte a queste domande ci saranno date nel corso del 2015, che dovrebbe essere un anno interessante per i mercati dei titoli indicizzati all’inflazione. In effetti le valutazioni attuali nel mercato dei TIPS implicano un’aspettativa d’inflazione a dieci anni pari all’1,65%, rispetto all’obiettivo d’inflazione della Fed del 2%. Se si crede nella capacità della Fed di creare inflazione, ciò significa che attualmente i detentori di obbligazioni vengono remunerati per detenere il rischio d’inflazione invece di proteggersi da esso, contrariamente a quanto osservabile a livello storico. Sulla base di tali dinamiche di valutazione e delle nostre previsioni di un modesto incremento dell’inflazione core, preferiamo mantenere la posizione di interest rate duration negli USA sotto forma di titoli indicizzati all’inflazione. Pertanto il sovrappeso sui TIPS rappresenta una delle nostre principali convinzioni per molti portafogli PIMCO” concludono i due esperti di PIMCO.
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