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Carlo Benetti

Perché lo stile value è una strategia senza tempo

11 Agosto 2014 15:10
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“Non c’è nulla di altrettanto disastroso di scelte di investimento razionali in un mondo irrazionale”, è un monito di John Maynard Keynes valido negli anni ’30 come anche in questo nostro complesso contesto economico finanziario. A questa conclusione giunge l’articolo “John Maynard, quel diavolo di un investitore” di Carlo Benetti di Swiss & Global Asset Management nel commento analitico Alpha e Beta del 4 agosto 2014.

John Maynard Keynes, che è ritenuto il più grande economista del Novecento, è stato anche un innovatore nello stile di gestione, anticipando lo stile “value” e intuendo l’importanza della finanza comportamentale. E, soprattutto, è stato un investitore capace di imparare dai propri errori che non furono pochi e nemmeno di scarsa entità.

Il primo di questi si materializzò subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Fino al 1914 i rapporti di cambio delle valute internazionali erano fissi, regolati in un sistema detto “Gold Standard” che assicurava la convertibilità delle banconote in oro. Sospeso durante il conflitto, si rivelò complicato ripristinarlo nel 1918 come se nulla fosse accaduto. Keynes approfittò dunque della elevata volatilità delle divise e di quella che definiva la sua “conoscenza superiore” delle regole del gioco per fare soldi in fretta. Il primo pool di investitori, come diremmo oggi, era composto da familiari e dagli amici del circolo Bloomsbury. Keynes andò “corto” (cioè puntò al ribasso) di marco tedesco, franco francese e lira italiana, valute che riteneva sarebbero state indebolite dall’inflazione post-bellica, e costruì posizioni “lunghe” (al rialzo) sulle valute che riteneva più forti, sterlina e dollaro.

Dopo un inizio molto positivo, nell’aprile del 1920 accadde un fatto inatteso: la Germania riguadagnò la fiducia dei mercati, il marco e altre divise deboli si apprezzarono rapidamente e in poche settimane si dissolsero performance e capitale. Deluso ma pronto a rifarsi, Keynes lasciò perdere le valute e preferì dedicarsi alle commodity, cercando nello studio delle serie storiche dei prezzi correlazioni e sentieri di prevedibilità.

Tra il 1921 e il 1927 Keynes ebbe anche la responsabilità di un fondo costituito con i colleghi del Ministero del Tesoro che investiva in materie prime, valute e titoli azionari. Dal 1923 al 1927 il risultato medio annuo di questo “fondo comune chiuso” fu attorno al 10%. Non andò altrettanto bene al fondo hedge “virtuale” costituito con gli amici di Bloomsbury: alla fine del decennio le performance peggiorarono, il tonfo di Wall Street e la Grande Depressione fecero il resto per consumare ulteriormente il patrimonio collettivo.

Ma Keynes sapeva imparare dai propri errori: se nemmeno lo studio accurato di centinaia di pagine di prezzi, valori e serie storiche era sufficiente a tracciare modelli previsivi, l’economista cominciò ad interrogarsi su quali fossero le vere, invisibili leve che muovevano il mercato. La risposta è nel capitolo dodicesimo della Teoria Generale, dove Keynes parla degli “slanci vitali”, gli “animal spirits” motore invisibile del progresso economico. Riconoscere che gli “spiriti animali” non rispondono ai canoni delle leggi economiche e della razionalità e non sono per nulla prevedibili, significò per Keynes mutare radicalmente il proprio approccio agli investimenti.

Anziché tentare di anticipare i movimenti del mercato sulla scorta delle sue “conoscenze superiori”, cominciò a concentrarsi sul valore dei titoli azionari nel lungo periodo adottando quello che oggi definiremmo un approccio “value”: individuava cioè titoli il cui prezzo appariva a sconto rispetto al valore intrinseco dei fondamentali.

Keynes commetteva errori ma i mercati sono imprevedibili, e non è bravo colui che batte sempre il mercato (perché non esiste), ma colui che dagli errori trae insegnamento. Sui primi fallimenti Keynes seppe modificare il proprio approccio, da strategie basate sulle previsioni macro economiche che si dimostrarono perdenti, passò a strategie fondate sulla comprensione del valore delle società.

Fu il primo investitore “value” e “bottom-up” perché comprese il significato della valutazione dei fondamentali e la paziente attesa dell’assorbimento delle sottovalutazioni nei prezzi. L’esperienza di Keynes nel gestire il patrimonio del King’s College resta di eccezionale attualità a distanza di tanti anni: non a caso John Wasik, che ha dedicato un libro al lato meno conosciuto di Keynes, quello dell’investitore (Keynes's Way to Wealth: Timeless Investment Lessons from The Great Economist, 2013), la definisce una “lezione senza tempo” utile ancora oggi all’investitore individuale e all’operatore professionale.
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