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We are 99,9%

8 Aprile 2014 10:05
financialounge -  germania OCSE salari USA
Al grido di “We are 99%” (Noi siamo il 99%) sono partiti da Wall Street per arrivare ai megafoni di molte piazze in tutto il mondo: era il cosiddetto movimento di protesta conosciuto sotto lo striscione di “Occupy”, che puntava a mettere sotto il riflettore quelli che erano i risvolti economico sociali di una crisi che stava scoppiando.

Il 99% era la popolazione, mentre quell’1% erano i detentori delle maggiori ricchezze della società. In questi anni le cose sono cambiate, ma in peggio: quella piccolissima percentuale ha infatti continuato ad accumulare ricchezze, senza risentire del costo della crisi. Secondo le ricerche appena pubblicate degli economisti Emmannuel Saez e Gabriel Zucman, rispettivamente della Università della Califorina e della London School of Economics, quella piccolissima percentuale andrebbe aggiornata: c’è infatti una ancora più piccola parte, quantificata intorno allo 0,1% i cui guadagni sono circa 206 volte il reddito dell’americano medio.
Numeri che surclassano decisamente il vecchio un per cento, il cui guadagno si fermava ad un più “etico” 41 volte il reddito medio dell’americano tipico. E come se non bastasse sembrerebbe che questo 0,1% possieda qualcosa come un quinto della ricchezza totale del Paese, con patrimoni che sono cresciuti dal 10 al 20% dal 1960 ad oggi. I risultati delle ricerche hanno evidenziato anche quelle figure che compongono questa piccolissima percentuale: il 25% di questi appartiene all’industria finanziaria ed il 40% rientrerebbe in una stretta cerchia di manager e top manager.

La forbice sociale ed economica si allarga: l’OCSE nel 2007 calcolava il divario esistente fra i redditi più alti e quelli più poveri nel nostro paese con un valore pari a 8,7 volte, numero che nel 2010 è cresciuto raggiungendo quota 10,2 volte. Una situazione non solo italiana, ma mondiale, dall’Africa agli Stati Uniti, passando per l’Oriente, che a distanza di qualche anno dalle proteste dei movimenti “Occupy” si è radicalizzata maggiormente. Proprio per arginarne in parte una situazione economica che può avere dei violenti riscontri anche sociali, molti governi si stanno sforzando di approvare leggi a sostegno delle fasce più deboli, l’ultimo caso è la Grosse Koalition tedesca guidata da Angela Merkel, che a fine marzo ha approvato il "Mindestlohn" (il salario minimo), calcolato secondo una tariffa retributiva di 8,5 euro l’ora e pronto ad entrare in vigore dal primo gennaio 2015.

Sempre in questa direzione sta lavorando l’amministrazione Obama attraverso il programma “Raise The Wage”, decisa ad alzare il salario minimo dagli attuali 7,25 ai 10,10 dollari l’ora, aumento che secondo il Congress Budget Office (CBO), farebbe di fatto uscire dalla soglia di povertà circa 900 mila persone, con conseguente aumento del reddito medio delle famiglie di circa il 3%. Ma spesso prima della politica arrivano i grandi gruppi ed è così che nel pieno del dibattito nazionale sul “Minimum Wage” (salario minimo) il gruppo d’abbigliamento GAP ha annunciato durante una conferenza stampa che pagherà 9 dollari l’ora i suoi 65.000 dipendenti, dai 7,25 attuali. Non sarà il livello promesso da Obama, però è un primo passo, che come sostiene il CEO di GAP, Glenn Murphy, “avrà un effetto positivo sulla nostra attività”.

E in Italia? Nel nostro paese siamo ancora alla fase dei dibattiti e delle timide aperture: è di un paio di giorni fa la dichiarazione di Enrico Morando, viceministro per l’Economia, che ha annunciato l’intenzione di fare una legge sul salario minimo, che prevede il carcere per i datori che non la rispettano. Chissà che anche qui da noi, qualche azienda non si dimostri più veloce della politica.
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