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Blythe Masters

International Editor's Picks - 07 aprile 2014

7 Aprile 2014 09:11
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Turchia, storia infinita. Dopo la vittoria elettorale di fine marzo il premier Erdogan va incontro a una nuova sconfitta: un tribunale di Ankara venerdì 4 aprile ha cancellato il bando di Twitter e altri social media ordinato proprio da Erdogan prima delle elezioni per evitare che le notizie sugli scandali circolassero troppo. E Business Week torna a interrogarsi sulla possibilità di una nuova crisi bancaria e finanziaria simile a quella che nel 2001 costò alle banche di stato una trentina di miliardi di dollari. Proprio le banche di stato sono infatti al centro degli scandali di questi giorni che le vedono accusate di aver supportato le politiche di Erdogan in modo non proprio ortodosso. Se la vittoria elettorale non bastasse a Erdogan di sopravvivere alle pressioni politiche si aprirebbe una fase molto rischiosa di fallimenti nel settore pubblico, dalle banche alle imprese di stato, scrive Business Week. Con conseguente fuga di capitali e crisi della moneta. A fine gennaio questo scenario era stato evitato con una dura stretta monetaria che aveva arginato la crisi della lira. Ma un’altra stretta potrebbe dare il colpo di grazie all’economia reale, già molto provata ma ancora non impattata troppo dai problemi finanziari.

Ci sono notizie che danno il senso del passaggio di un’epoca più di mille analisi. Giovedì 3 aprile ne abbiamo letta una sui giornali americani: Blythe Masters lascia J.P. Morgan. Era entrata come stagista 30 anni fa e a 28 anni era già il più giovane managing director della banca. Una carriera brillante iniziata con un’invenzione: i derivati sui crediti. La stessa Masters l’ha raccontata così in un libro di Gillian Tett: “la banca A, preoccupata per un prestito che ha concesso, fa un accordo derivato con cui si impegna a pagare una commissione alla banca B che in cambio si impegna a compensare la banca A se il credito finisce male. La banca A elimina parte del rischio legato al prestito e si mette in condizione di erogarne altri. La banca B assume parte del rischio ma incassa subito la commissione”. Era metà degli anni 90. Era stato inventato il primo mattone della costruzione che poi, sfuggita di mano, avrebbe portato alla crisi dei subprime. Ma il talento della Masters è rimasto fuori discussione anche dopo il crac Lehman. Infatti J.P. Morgan la sposta alla guida della divisione commodities nel 2007, un settore che negli anni successivi sarebbe diventato una miniera d’oro per le investment banks. Ma che oggi si è esaurita per una serie di ragioni, la principale delle quali costituita dalle regole più strette sul capitale introdotte in USA e Europa. Qualche mese fa J.P. Morgan vende il trading nelle commodities a Mercuria, un gruppo svizzero di matrice non bancaria. E la mitica Blythe lascia per mancanza, è il caso di dirlo, di materia prima. Le banche invece, anche quelle grandissime, tornano a fare le banche.

Google, Facebook, Twitter hanno corso troppo? Se lo chiede Barron’s che prova a fare qualche conto per verificare la sostenibilità delle valutazioni raggiunte dai titoli Internet in Borsa. Il ragionamento è semplice, scrive Barron’s, c’è un problema di dimensioni della torta. La torta si chiama pubblicità, che è la principale fonte di ricavi dei colossi del web. E che non può crescere all’infinito. Lasciamo perdere i price earnings stellari e concentriamoci sul punto. E proviamo a calcolare quale potrebbe essere il valore di un’ipotetica società che riuscisse a catturare il 100% della pubblicità online di tutto il mondo. Il calcolo lo ha fatto Janney Capital Markets, un’investment bank, ed è arrivata alla conclusione che la nostra ipotetica società dovrebbe essere molto più piccola della somma della dozzina di dot.com che oggi controllano oltre l’80% del mercato globale della pubblicità online. Che più di tanto non può crescere perché gli investimenti pubblicitari sono una funzione delle vendite reali, che hanno a loro volta un limite costituito dalla popolazione e dal reddito del pianeta. Conclusione di Barron’s, non ci sono abbastanza soldi in giro nel globo per sostenere le valutazioni che hanno raggiunto i giganti di Internet. A meno che, aggiungiamo, non riescano a produrre dei business model meno dipendenti dalla pubblicità. Come ad esempio Google, che per ora sta investendo miliardi a 360 gradi in tutti i campi della tecnologia. E che prima o poi comincerà a vedere anche i ritorni.

La moneta elettromica del futuro non si chiama Bitcoin ma M-Pesa, la banca che la emette è Vodafone e per ora circola in Africa, soprattutto Kenia, e India. Ma presto arriverà anche in Italia. La storia la leggiamo sul Financial Times. Tutto comincia nel 2002 quando dei ricercatori inglesi scoprono che in Uganda, Botswana e Ghana la moneta più utilizzata è il traffico telefonico. Vodafone ci lavora sopra e nel 2007 lancia la piattaforma per utilizzare le ricariche come pagamenti. La cosa ha un tale successo che oggi circa un terzo del PIL del Kenia passa attraverso i pagamenti in M (per Mobile)-Pesa (la moneta locale in Swahili). L’operatore telefonico guidato da Vittorio Colao ha chiesto la licenza e-money per l’Europa, e si prepara a sbarcare in Romania, dove conta di intercettare 7 milioni di persone che oggi usano solo il cash. Seconda tappa l’Italia, con la sua numerosa popolazione di immigrati. Oggi M-Pesa, che a differenza di Bitcoin ha dietro soldi reali e non “creati”, ha circa 17 milioni di clienti attivi che fanno girare quasi un miliardo di euro di transazioni al mese. Il “conto” può essere movimentato direttamente dal telefonino ma i soldi si possono ritirare anche dal bancomat.
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