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Politica monetaria

Le banche centrali fanno la cosa giusta ma non riescono a spiegarlo bene

Dopo vent’anni politica economica e monetaria non sono più allineate per ragioni diverse in USA e in Europa. L’inflazione va abbattuta ma la spesa pubblica a go-go non aiuta. Il faro dei fondamentali aziendali

di Stefano Caratelli 19 Dicembre 2022 08:07
financialounge -  banche centrali BCE Economica FED inflazione

Fino alla guerra in Ucraina, politiche economiche e monetarie erano andate sostanzialmente a braccetto per oltre vent’anni nei principali paesi sviluppati, vale a dire dalla crisi finanziaria globale in poi, con la parziale eccezione della risposta iniziale dell’Europa alla crisi del debito sovrano nel 2011. Poi ci ha pensato Mario Draghi ad assumere di fatto anche la leadership politica con l’ormai storico ‘whatever it takes’ lanciato a luglio del 2012 appena arrivato alla guida della Bce, rimettendo le cose a posto e salvando l’euro dal collasso ad appena un decennio dalla sua nascita. L’azione concertata di politica monetaria e fiscale ha ripreso a funzionare, anche a fronte dello shock della pandemia e sembrava poter durare nonostante la ripartenza violenta delle economie nel 2021, che sommata alle strozzature globali causate dal blocco da Covid, aveva risvegliato un’inflazione globale in letargo da decenni.

LA GUERRA HA CAMBIATO LE CARTE IN TAVOLA


Ancora ad agosto dell’anno scorso il capo della Fed Powell ribadiva a Jackson Hole che l’inflazione era temporanea e la si poteva lasciar correre un po’ anche oltre il target, mentre i governi in USA ed Europa continuavano con le misure di stimolo per sostenere la ripartenza delle economie. Poi l’aggressione russa cambiava le carte in tavola con l’effetto domino sulle catene globali dei costi, partito dall’energia e diffuso a tutte le materie prime. La Fed prendeva atto e cominciava a stringere a marzo, la Bce seguiva, ma la politica andava avanti con gli stimoli e i sostegni, anzi li rafforzava. In Europa, per alleviare le sofferenze causate a famiglie e imprese dallo shock energetico, in USA più per ragioni elettorali, con le elezioni di mid-term in arrivo e quelle per la Casa Bianca all’orizzonte.

POWELL E LAGARDE NON SONO GRANDI COMUNICATORI


Ovviamente, economie tenute a galla dalla spesa pubblica e banche centrali restrittive sempre più aggressivamente sono due cose che non vanno d’accordo. Powell e Lagarde stanno seguendo il manuale delle banche centrali, se l’inflazione va fuori controllo si alza il costo del denaro per raffreddare l’economia. Ma con le misure finanziate in debito i rispettivi governi contribuiscono ad alimentarla. A differenza di Draghi e Bernanke, gli attuali vertici di Fed e Bce non sono grandi comunicatori, soprattutto la seconda. Nell’ultima conferenza stampa, Lagarde avrebbe forse almeno potuto citare il Transmission Protection Instrument, noto come salva-spread, annunciato a luglio, e magari spiegare che i danni all’economia di un’inflazione che corre ai massimi da 40 anni sono peggiori di quelli causati da una temporanea e ancora solo probabile recessione.

OGNUNO PER LA SUA STRADA SUL CARO GAS


Una controparte politica che non riesce a mettersi d’accordo sul tetto al prezzo del gas, fatta di paesi che vanno ognuno per la sua strada compensando con la spesa pubblica che si possono permettere, come la Germania, le sofferenze inflitte dal caro energia, non aiuta a far passare il messaggio che la banca centrale sta facendo la cosa giusta. Powell ha un problema simile ma diverso, l’inflazione americana più che dallo shock energetico è alimentata da un’amministrazione che continua a spendere e spandere riducendo il bacino potenziale della forza lavoro, che costa sempre di più alle imprese e induce la spirale al rialzo dei salari che a sua volta alimenta la corsa dei prezzi.

PROBLEMI DIVERSI PER FED E BCE


Proprio perché l’inflazione ha radici più endogene, la ‘cura’ della Fed può essere più efficace. Ma Powell non vuol perdere credibilità dichiarando troppo presto ‘missione compiuta’ dopo aver bollato l’inflazione come temporanea forse troppo a lungo. A favore di Lagarde gioca invece il fatto che lo shock energetico è un fattore ‘una tantum’ e che in Europa sono sostanzialmente assenti i fattori ‘interni’ che invece alimentano l’inflazione americana. Forse potrebbe sforzarsi di spiegarlo meglio, invece di fare invasioni di campo ‘politiche’, come quella sul Meccanismo europeo di stabilità nell’ultima conferenza stampa, e magari enfatizzare la maggior resilienza del sistema finanziario e bancario europeo rispetto alla crisi finanziaria e a quella del debito sovrano.

BOTTOM LINE


Volatilità macroeconomica e monetaria hanno pesato sui mercati nell’anno che sta per finire, lasciando gli investitori nella nebbia dell’incertezza. Dalla seconda metà del 2023 ci sarà sicuramente più visibilità. Fino ad allora l’unico faro è rappresentato dai fondamentali societari, fatti di utili e di multipli espressi nei prezzi. A ottobre questi ultimi hanno toccato un minimo di 16,5 volte sullo S&P 500, un ‘pavimento’ abbastanza alto rispetto a precedenti mercati ‘Orso’. Le trimestrali che inizieranno a uscire tra 2-3 settimane in USA e poi in Europa andranno sfogliate una per una per posizionarsi al meglio in attesa del ritorno che l’investimento azionario non ha mai negato all’investitore.
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