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Il crollo del greggio scompagina le previsioni di crescita

5 Dicembre 2014 09:10
financialounge -  crescita economica Morgan Stanley OPEC petrolio shale oil
“Resta da vedere fino a che punto scenderanno le quotazioni petrolifere, ma la loro inattesa flessione dovrebbe dare impulso alla crescita dell’economia mondiale nei prossimi 12-24 mesi. In un momento in cui le banche centrali sono alle prese con lo spettro della deflazione e istituti come il FMI continuano a ridurre le previsioni, questa dinamica rappresenta un cambiamento significativo e positivo” commenta Andrew Harmstone, Managing Director e Portfolio Manager della strategia Global Balanced Risk Controlled (GBaR) di Morgan Stanley Investment Management secondo il quale, utilizzando una recente analisi del FMI al contrario, il calo dei prezzi del petrolio deve necessariamente costituire un fattore positivo per l’economia mondiale nel suo complesso.

Il riferimento è al rapporto, pubblicato a inizio ottobre, in cui il fondo monetario internazionale ha nuovamente ridotto le previsioni di crescita dell’economia mondiale, portandole al 3,3% per il 2014 e al 3,8% l’anno prossimo, contro il 3,4% e il 4,0% di luglio. Nella sua analisi l’istituto esamina il rischio di un’impennata del 20% dei prezzi del greggio, causata da interruzioni alla produzione irachena a seguito di un inasprimento del conflitto nel paese: evoluzione considerata come uno shock negativo per l’economia mondiale con due possibili scenari.

In uno di questi, il FMI ipotizza che l’aumento delle quotazioni petrolifere non abbia un ulteriore impatto sulla fiducia di consumatori, investitori e imprese con conseguente erosione della crescita mondiale limitata allo 0,5% nel 2015. Nell’altro scenario il FMI ipotizza che lo shock petrolifero si ripercuota negativamente sul clima di fiducia, riducendo la crescita mondiale dell’1,5%. Peccato che, nel mese di ottobre, i prezzi del greggio non sono saliti del 20%, ma addirittura diminuiti.

“La produzione mondiale di greggio si aggira intorno a 90 milioni di barili al giorno (mbg). I principali paesi importatori su base netta, come Cina (circa 5,5 mbg), Giappone (4,3 mbg), India (2,5 mbg) e Corea del Sud (2,2 mbg), dovrebbero trarre beneficio da questa dinamica, poiché ciascuno di essi produce una gamma di beni destinati all’esportazione che non hanno subìto flessioni dei prezzi. Nel caso dell’India, il calo delle quotazioni petrolifere va di pari passo con minori tensioni inflazionistiche, nonché con una riduzione dei sussidi governativi per gli acquisti di fertilizzanti e diesel. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, la diminuzione dei prezzi del greggio dovrebbe abbassare il costo dei sussidi per i carburanti da circa 550 miliardi di dollari a 400 miliardi di dollari su scala globale” fa sapere Andrew Harmstone.

Negli Stati Uniti, il maggiore paese importatore di petrolio su base netta (circa 6,5 mbg), ma anche primo produttore grazie al boom dello shale oil, il ribasso delle quotazioni petrolifere, nel complesso, dovrebbe dare impulso all’attività economica nella maggior parte del Paese. Se inoltre ne deriverà un calo dell’inflazione, effettiva e prevista, è probabile che la Federal Reserve decida di mantenere più a lungo l’attuale tasso target sui Fed Fund (0,00-0,25%).

Al contrario, la dinamica discendente dei prezzi del greggio penalizzerà alcuni paesi membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) e la Russia. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Kuwait possono far fronte all’impatto negativo del calo delle quotazioni, grazie alle ingenti riserve valutarie costituite nel tempo, all’oculata gestione di bilancio dei rispettivi governi e alla possibilità di sostenere la propria economia tramite i fondi sovrani nazionali (SWF): lo stesso vale per diversi paesi produttori che non fanno parte dell’OPEC, come la Norvegia.

Diverso il discorso per Iran e Venezuela. I rispettivi bilanci sono da tempo in disavanzo e il deficit viene finanziato con l’emissione di moneta. Di conseguenza l’inflazione si è impennata. In entrambi i casi i tagli alla spesa pubblica (e agli investimenti mediante le entità controllate) potrebbero facilmente alimentare tensioni sociali. Iran e Venezuela (nonché la Russia) non sono pienamente integrati nel sistema economico e finanziario globale.

Ciò significa che la crisi finanziaria o sociale di uno di questi paesi (o anche tutti) non avrebbe necessariamente un impatto significativo sui mercati globali. La diminuzione dei prezzi del petrolio rappresenta infine una sfida per l’Europa, poiché va a esacerbare le pressioni deflazionistiche che preoccupano la Banca Centrale Europea (BCE).
A ottobre un’altra sorpresa è giunta dal comitato di politica monetaria della Bank of Japan, che ha deciso (anche se con una maggioranza risicata) di ampliare il programma di allentamento quantitativo.

“Il ribasso del greggio potrebbe indurre la BCE a rafforzare i programmi di acquisto di attivi recentemente annunciati. Nel complesso, tuttavia, varie economie europee dovrebbero beneficiare di un miglioramento della ragione di scambio, al pari di Giappone, Cina, India e Corea del Sud” conclude Andrew Harmstone.
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