BTP
Rendimenti dei BTP sui minimi, consigli per gli investitori
1 Settembre 2014 09:50

mente due anni fa, il BTP triennale rendeva il 3,73% lordo annuo, quello quinquennale il 4,65% e il decennale il 5,69%: stamani, invece, il titolo poliennale del Tesoro scadenza agosto 2017 non offre oltre lo 0,65% annuo, il BTP 1.9.2019 garantisce l’1,13% e il BTP 1.9.2024 paga il 2,42% all’anno.
Per percepire ancora meglio le differenze in tasca al risparmiatore, si deve calcolare che il BTP triennale acquistato due anni fa e mantenuto fino a scadenza riconosceva in totale l’11,61% mentre lo stesso titolo acquistato oggi liquiderà nei prossimi tre anni interessi complessivi dell’1,96%, il BTP a cinque anni comperato due anni fa garantiva un guadagno totale nei 60 mesi di durata del 25,52% e quello sottoscritto oggi e che scadrà nel settembre 2019 non andrà oltre un total return del 5,78%: infine, il BTP decennale, a fronte di un +73,92% di quello comperato due anni fa, acquistato oggi assicurerà flussi cedolari nei prossimi 10 anni pari al 27,01% complessivo.
Queste percentuali di rendimento, schiacciate sui minimi storici, costringono i risparmiatori a scelte ben precise di portafoglio che non possono più essere quelle (semplici e comode) di acquistare un titolo di stato e mantenerlo fino alla scadenza usufruendo di lauti tassi di interesse.
Questo approccio non paga più, nemmeno considerando il tasso di inflazione attuale intorno a zero: basterebbe infatti anche un graduale aumento del costo della vita nei prossimi due – tre anni fino al 2%- 2,5% per azzerare ogni rendimento reale (cioè al netto dell’inflazione).
Secondo gli esperti di asset allocation obbligazionaria è opportuno procedere su almeno tre direttive. In primis è necessario mantenere una esposizione alle componenti a reddito fisso che offrono ancora oggi rendimenti più rotondi come i corporate bond investment grade e, soprattutto, gli high yield. Facendo però molta attenzione alla selezione degli emittenti e dei settori, perché aumenterà il tasso di default (fallimento) e il mercato tenderà a penalizzare in modo anche significativo gli emittenti più fatiscenti rispetto a quelli di media qualità e quelli solidi.
In secondo luogo, il consiglio è quello di allocare una quota del portafoglio a reddito fisso in bond emerging markets, preferendo quelli in dollari USA (che dovrebbero beneficiare anche del rafforzamento della valuta americana rispetto all’euro): la percentuale di investimento in questa asset class, tra il 5% e il 25% del portafoglio, deve essere direttamene proporzionale alla durata dell’investimento a alla propensione al rischio del risparmiatore.
La terza componente, infine, è quella relativa alla diversificazione valutaria tramite la quale è possibile catturare la rivalutazione dei titoli in moneta estera e, al contempo, le cedole: in quest’ambito oltre alle emissioni in dollari americani (suggerite quelle con scadenza intorno ai 5 anni che dovrebbero soffrire un po’ meno il probabile rialzo dei tassi di interesse USA), consigliate anche quelle in dollari australiani, in renminbi cinesi, e, in parte, in sterline inglesi.
Per percepire ancora meglio le differenze in tasca al risparmiatore, si deve calcolare che il BTP triennale acquistato due anni fa e mantenuto fino a scadenza riconosceva in totale l’11,61% mentre lo stesso titolo acquistato oggi liquiderà nei prossimi tre anni interessi complessivi dell’1,96%, il BTP a cinque anni comperato due anni fa garantiva un guadagno totale nei 60 mesi di durata del 25,52% e quello sottoscritto oggi e che scadrà nel settembre 2019 non andrà oltre un total return del 5,78%: infine, il BTP decennale, a fronte di un +73,92% di quello comperato due anni fa, acquistato oggi assicurerà flussi cedolari nei prossimi 10 anni pari al 27,01% complessivo.
Queste percentuali di rendimento, schiacciate sui minimi storici, costringono i risparmiatori a scelte ben precise di portafoglio che non possono più essere quelle (semplici e comode) di acquistare un titolo di stato e mantenerlo fino alla scadenza usufruendo di lauti tassi di interesse.
Questo approccio non paga più, nemmeno considerando il tasso di inflazione attuale intorno a zero: basterebbe infatti anche un graduale aumento del costo della vita nei prossimi due – tre anni fino al 2%- 2,5% per azzerare ogni rendimento reale (cioè al netto dell’inflazione).
Secondo gli esperti di asset allocation obbligazionaria è opportuno procedere su almeno tre direttive. In primis è necessario mantenere una esposizione alle componenti a reddito fisso che offrono ancora oggi rendimenti più rotondi come i corporate bond investment grade e, soprattutto, gli high yield. Facendo però molta attenzione alla selezione degli emittenti e dei settori, perché aumenterà il tasso di default (fallimento) e il mercato tenderà a penalizzare in modo anche significativo gli emittenti più fatiscenti rispetto a quelli di media qualità e quelli solidi.
In secondo luogo, il consiglio è quello di allocare una quota del portafoglio a reddito fisso in bond emerging markets, preferendo quelli in dollari USA (che dovrebbero beneficiare anche del rafforzamento della valuta americana rispetto all’euro): la percentuale di investimento in questa asset class, tra il 5% e il 25% del portafoglio, deve essere direttamene proporzionale alla durata dell’investimento a alla propensione al rischio del risparmiatore.
La terza componente, infine, è quella relativa alla diversificazione valutaria tramite la quale è possibile catturare la rivalutazione dei titoli in moneta estera e, al contempo, le cedole: in quest’ambito oltre alle emissioni in dollari americani (suggerite quelle con scadenza intorno ai 5 anni che dovrebbero soffrire un po’ meno il probabile rialzo dei tassi di interesse USA), consigliate anche quelle in dollari australiani, in renminbi cinesi, e, in parte, in sterline inglesi.
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