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Il rallentamento degli emerging markets

14 Giugno 2013 20:00
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Le politiche monetarie espansive delle banche centrali di Stati Uniti e Giappone continuano a dare adito ad allarmanti discorsi di “guerre valutarie”. La paura è che ondate di dollari e yen freschi di zecca si riversino sui mercati emergenti in più rapida crescita, spingendo al rialzo le divise, indebolendo le esportazioni e creando bolle speculative locali. Ma è davvero questo lo scenario? Cerchiamo di fare chiarezza.

Dopo la rapida espansione dell’ultimo decennio le grandi economie emergenti stanno ora rallentando: dall’India al Sudafrica le autorità politiche tentano con scarso successo di attirare una maggiore quota di flussi di capitale globale per finanziare i crescenti disavanzi delle partite correnti. Le statistiche più significative indicano che lo scorso anno la crescita delle riserve in valuta estera dei paesi emergenti si è praticamente arrestata. Nell’ultimo decennio, queste riserve sono aumentate a un tasso medio del 25%, passando da 570 miliardi di dollari nel 2000 a ben 7 mila miliardi nel 2011: nell’ultimo anno, tuttavia, la crescita è bruscamente rallentata, raggiungendo a malapena il 5%.

ll quadro complessivo globale, vede un calo drammatico dei flussi transfrontalieri di capitale, scesi del 60% rispetto al picco del 2008. Le quote maggiori di tali flussi riguardano i prestiti bancari, il commercio e gli investimenti diretti esteri, che evidenziano un rallentamento su scala mondiale. I dati diffusi dall’International Institute of Finance (IIF) mostrano che nel 2007 i flussi bancari e commerciali avevano da soli raggiunto un picco del 4,5% del Pil globale, per poi scendere all’attuale 1,5% del PIL.

Gran parte del denaro giapponese e statunitense resta ora all’interno dei confini nazionali, o addirittura ci ritorna. I media, al contrario, tendono a concentrare l’attenzione sulla quota relativamente ridotta di flussi di capitale rappresentata dagli investimenti finanziari che dominano la stampa internazionale perché incidono sulle quotazioni azionarie e obbligazionarie.

È vero che durante l’intero anno scorso, gli investimenti finanziari hanno continuato ad affluire nei mercati emergenti a un ritmo vivace. Ma è altrettanto sacrosanto che ora i flussi verso i mercati azionari emergenti vanno riducendosi, e i mutamenti più ampi dovrebbero presto risultare evidenti a tutti in virtù anche dei dati dell’International Institute of Finance e dell’FMI: tra il 2002 e il 2007, gli afflussi netti di capitale privato nei mercati emergenti sono saliti alle stelle, passando da 100 a 970 miliardi di dollari.

Dopo il crollo accusato nel 2008 e poi nuovamente nel 2009, questi flussi hanno recuperato solo parte del terreno perduto a quota 770 miliardi circa e il loro ruolo si è enormemente ridimensionato. Misurati come quota dell’economia, secondo i dati FMI i flussi netti di capitale privato hanno raggiunto il picco nel 2007, attestandosi al 4,35% del PIL dei mercati emergenti, per poi crollare allo 0,51% nel 2012, soprattutto a causa del calo dei prestiti provenienti da banche e altri creditori occidentali.

L’ottimismo che nel corso dell’ultimo decennio aveva spinto importanti banche occidentali a distribuire prestiti in tutto il mondo è svanito per fare posto a criteri di finanziamento più stringenti, dalla California ai mercati emergenti. Un analogo calo è stato rilevato sul fronte dei flussi commerciali, che ha indotto a parlare di “deglobalizzazione”.
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