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L'analisi

Le crisi bancarie non sono sistemiche ma la gestione del rischio torna vitale

La lotta all’inflazione rende impraticabile il soccorso della liquidità delle banche centrali e una gestione attiva del rischio diventa la priorità per gli investitori e le stesse banche per adattarsi al cambio di regime

di Stefano Caratelli 20 Marzo 2023 08:35
financialounge -  banche mercati Weekly Bulletin

Alla fine, il caso della Silicon Valley Bank e dintorni si può forse iscrivere tra i danni collaterali dall’impreparazione a fronteggiare il nuovo contesto che dall’inizio dell’anno scorso ha preso il posto del vecchio scenario durato una ventina d’anni, fatto di bassa inflazione, denaro a costo zero o quasi e liquidità fin troppo abbondante. Un mondo nuovo che la ‘banca delle star’ degli investitori miliardari in start up tecnologiche ha affrontato per quasi un anno intero priva di un ‘risk chief officer’ vale a dire un responsabile del rischio, senza che i regolatori avessero niente da dire. Il rischio c’era ed era pesante, fatto della miscela micidiale di inflazione elevata e tenace e di una Fed costretta a contrastarla con la raffica più rapida di sempre di rialzi dei tassi. Un ambiente tossico per le obbligazioni, anche per le più sicure del mondo come i Treasury di cui era piena la SVB, che imponeva di proteggere il portafoglio con gli strumenti appropriati, che non mancano, tanto più che la corsa ai depositi imponeva di smobilizzare per reperire liquidità.

GESTIONE "AMATORIALE" E CONTROLLI TROPPO DEBOLI


Nessuna crisi sistemica ma solo una gestione ‘amatoriale’ e una cecità colpevole delle autorità preposte a controllare. Ma ha comunque scatenato gli allarmi sulla ‘nuova Lehman’ che ha spaventato gli investitori anche in Europa, dove sono scattate soprattutto le prese di profitto dopo il rally poderoso dei titoli bancari di inizio anno. Alla fine, almeno per ora, il bilancio è una sostanziale parità per le azioni bancarie europee, tornate dove erano partite il 2 gennaio, mentre per quelle americane la batosta è stata più severa, con una perlidita a doppia cifra, come mostrano i due grafici qui sotto.


Indice titoli bancari EUROSTOXX da inizio 2023 -0,8%



Indice S&P titoli bancari USA da inizio 2023 -16,3%

LE DIFFERENZE TRA BANCHE USA E EUROPEE


Da notare che diversi big a stelle e strisce hanno limitato i danni. Citi da inizio anno è scesa da 45,8 a 44,2 dollari, JP Morgan è addirittura salita da 17,8 a 18,7 dollari. Negli ultimi anni le grandi banche USA hanno surclassato le europee soprattutto nell’investment banking globale, ma gli istituti del vecchio continente conservano il vantaggio della stretta regolatoria adottata dalle autorità dopo la grande crisi finanziaria del 2008, mentre le americane, soprattutto di medie dimensioni, hanno goduto di un maggior ‘lasciar fare’ che nella nuova era di alta e tenace inflazione e tassi in ripida ascesa si è rivelato un boomerang. Questo anche perché dopo decenni di assuefazione alla ‘put’ della Fed, inventata da Alan Greenspan alla fine degli anni 80 e successivamente estesa con il Quantitative Easing da Ben Bernanke in poi, si era persa la nozione di gestione del rischio intrinseco del business bancario, tanto ad aprire il paracadute in caso di shock esterno, come la pandemia, ci pensavano le autorità inondando il mercato e l’economia di liquidità.

GLI STRUMENTI DI PROTEZIONE NON MANCANO


Contro il rischio tassi, che va a intaccare il valore del portafoglio obbligazionario in termine di price-to-market, non mancano certo gli strumenti di protezione, a condizione che in banca ci sia un chief risk officer che lo veda e prenda le contromisure necessarie. La missione della Fed è proteggere il valore della moneta e garantire la stabilità dei prezzi, anche a rischio di sbandate violente dei mercati, come è successo sull’obbligazionario e sulla parte più sopravvalutata dell’azionario USA nel 2022. All’inizio del 2023 è cominciata a circolare l’idea che il nuovo regime fatto di inflazione e tassi elevati fosse vicino al capolinea, il rischio è tornato fuori dai radar e a Wall Street hanno ripreso fiato i tecnologici e gli altri titoli ‘growth’, più favoriti quando i tassi scendono o sono bassi.

LA BCE NON SI È FATTA CONDIZIONARE, ORA TOCCA ALLA FED


La BCE non si è lasciata condizionare dai titoli dei media sulla ‘nuova Lehman’ in arrivo e ha tirato diritto con l’annunciato aumento dei tassi da 50 punti base. Anche perché se si fosse astenuta avrebbe mandato il segnale che potesse essere in arrivo una crisi sistemica. Ora tocca alla Fed, che dovrebbe seguire la stessa linea al FOMC del 21-22 marzo. Finora le autorità USA hanno scelto correttamente la strada di interventi mirati sui focolai di difficoltà, evitando un’apertura incondizionata dei rubinetti della liquidità. Un cambiamento di regime radicale come quello iniziato da un anno e mezzo non poteva essere indolore e il mercato sta faticosamente iniziando a prenderne atto.

L’EMOTIVITÀ È IL PEGGIOR CONSIGLIERE


Il rischio intrinseco all’investimento è tornato e non è più un fattore relegato tra gli shock esterni e imprevedibili, come la pandemia, a cui fanno fronte le autorità immettendo liquidità. Gli strumenti per gestirlo e governarlo non mancano, fatti soprattutto dai tanto vituperati derivati, ma bisogna affidarsi a chi li conosce e li sa usare, evitando di improvvisarsi money manager. Il peggior consigliere è l’emotività, che spinge a seguire il gregge e a comprare quando tutto va su e a vendere quando viene giù tutto. Ogni settore del mercato e ogni singolo titolo è esposto a rischi diversi, che spesso nascondono anche opportunità. Vanno ‘visti’ per tempo da occhi esperti e gestiti da mani altrettanto esperte sapendo, che per proteggere e far fruttare il capitale, limitare i danni è importante quanto la performance nel lungo termine.

BOTTOM LINE


Il ritorno dell’inflazione contro cui giustamente BCE e Fed stanno combattendo non è solo l’esito perverso della combinazione tra ripartenza post-pandemia e crisi energetica causata dall’attacco russo all’Ucraina. Ha radici profonde nella fine della globalizzazione vecchia maniera a traino cinese e nella nuova instabilità geopolitica, che sta minando quel ‘dividendo della pace’ di cui i Paesi sviluppati hanno goduto dal collasso dell’URSS dal 1991 in poi. Il nuovo regime ha rimesso al centro il fattore rischio che era finito nel dimenticatoio e richiede aggiustamenti continui nell’allocazione di portafoglio che non possono essere lasciati al ‘fai da te’.
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