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Dove può portare la guerra valutaria mondiale

5 Maggio 2015 10:10
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Nel corso di questa lunga crisi economico – finanziaria, uno dei meccanismi economici che ha aiutato le economie maggiormente in sofferenza è stato il tasso di cambio.
Ha iniziato nel 2007 la sterlina con un crollo in termini ponderati su base commerciale, poi ha proseguito il deprezzamento del dollaro americano nel periodo 2009-2011, quindi, nel 2013, è stata la volta dello yen mentre dal secondo semestre 2014 la moneta unica europea si è indebolita verso tutte le principali divise estere. Il tutto senza dimenticare la decisione, adottata lo scorso 15 gennaio, dalla Banca Nazionale Svizzera (BNS), di sganciare il franco svizzero dal cambio fisso a 1,20 nei confronti dell’euro che, sebbene abbia generato l’effetto di rivalutare la divisa di Berna ha comunque affrontato un problema di cambio valutario che in prospettiva avrebbe potuto provocare danni ben peggiori alla Svizzera.
In ogni caso, tutte le svalutazioni elencate sopra hanno contribuito (se non, addirittura, determinato) ad una crescita economica più robusta per il paese che ne ha beneficiato in termini di esportazioni di beni e servizi e di competitività internazionale. In quest’ottica le previsioni di una ricaduta positiva per la zona euro grazie anche alla svalutazione della divisa unica sono quindi più che giustificate. Ma ora la questione è capire se ci sia spazio per un ulteriore indebolimento dell’euro oppure se, al contrario, si possano delineare le condizioni per un lento recupero rispetto al dollaro e alle altre principali monete internazionali.
Al momento sembra prevalere l’opinione in base alla quale, da qui a fine anno, il biglietto verde dovrebbe proseguire nel rafforzamento rispetto all’euro fino alla parità (1,0) e, addirittura anche fino a quota 0,95. Uno scenario che si basa sul convincimento che l’economia USA prosegua il suo cammino di rafforzamento e la FED inizi a rialzare i tassi di interesse da giugno (o, al più tardi, da settembre) mentre l’economia europea, sebbene in miglioramento rispetto al 2014, si mantenga ad un ritmo inferiore di quella USA.
Esiste peraltro una correlazione negativa tra la forza del dollaro e gli utili societari americani: negli ultimi tre mesi del 2014 le società dell’indice S&P 500 più orientate all’attività domestica hanno beneficiato di una crescita degli utili di circa il 10%, mentre le aziende più orientate all’export hanno visto una crescita della redditività a una sola cifra.
“Come abbiamo evidenziato all’inizio dell’anno un periodo caratterizzato da un dollaro forte potrebbe essere d’aiuto per l’economia globale se rallenta la crescita dei tassi in USA e, al contempo, accelera la crescita in Europa e in Giappone. Tuttavia un’ulteriore rafforzamento del dollaro sulle principali valute potrebbe essere controproducente per i mercati e per la crescita globale, oltre che porre dei problemi più seri per la Federal Reserve” afferma Maria Paola Toschi, Market Strategist per l’Italia di J.P. Morgan Asset Management.
A tale proposito, alcuni analisti valutari fanno notare che, se i bilanci delle corporation americane rivelassero impatti negativi nei bilanci molto più seri di quelli preventivati, la FED potrebbe essere meno proattiva ad agire sui tassi e se, in parallelo, l’Europa mostrasse dati di crescita migliori delle attese, allora non sarebbe da escludere un consolidamento del cambio euro / usd sugli attuali valori (1,10) con anche un graduale rafforzamento della divisa unica europea nei successivi 12 mesi.
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