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Il pianeta comincia a digerire la cura Trump

Guerra dei dazi e taglio alle tasse fanno parte di un unico disegno diretto a riequilibrare i rapporti di scambio col resto del mondo. Ora si sentono i primi effetti ma il risultato può essere positivo. E l’Italia ha carte da giocare.

10 Settembre 2018 08:39
financialounge -  donald Trump italia PMI USA Weekly Bulletin https://www.flickr.com/photos/gageskidmore/30124698995

Uno degli strumenti più accurati e diffusi a livello globale per misurare lo stato di salute di un’economia è il Purchasing Managers Index, familiarmente PMI, che esce regolarmente in ben 45 paesi di solito qualche giorno prima della fine del mese di riferimento. Lo hanno inventatonegli USA, dove lo pubblica fin dagli anni '50 l’Institute for Supply Management, ma solo alla fine degli anni '90 del secolo scorso è diventato popolare tra investitori, economisti e broker. Fuori dall’America lo pubblicano diverse organizzazioni, la più importante è Markit Group che copre oltre 30 paesi. Sopra 50 il PMI segna economia in espansione, sotto in contrazione. È basato su interviste regolari a un campione di direttori acquisti dell’industria manifatturiera che vengono interpellati su diversi parametri: prezzi, occupazione, scorte, fatturato, etc. sia con riferimento alle condizioni attuali che alle attese per i prossimi mesi.

DIVERSI SCIVOLANO SOTTO QUOTA 50


A gennaio 2018 il PMI viaggiava sopra 50 in tutti i paesi in cui viene rilevato. L’ultimo dato, di agosto, ne registra quasi uno su cinque sotto. Tra questi troviamo economie importanti, ovviamente la Turchia, non l’Argentina perché a Buenos Aires il PMI non lo rilevano, la Russia, il Sud Africa, ma anche Hong Kong, il Myianmar, il Libano, la Corea del Sud, la Thailandia. La Cina tiene coi denti quota 50, come anche l’Italia. L’Eurozona nel suo complesso viaggia comodamente ben sopra lo spartiacque, ma in rallentamento, non invece gli Stati Uniti. Alcuni fortunati, come Norvegia e Svizzera, hanno indici PMI addirittura sopra '60. Cosa è successo da gennaio a oggi? La narrazione più diffusa parla di economie emergenti mandate in crisi dalla combinazione di tassi americani in rialzo e dollaro forte, che avrebbero fatto salire il costo del debito in valuta e fatto sballare le bilance dei pagamenti, facendo svalutare le monete locali e imbarcare inflazione. In pratica una riedizione su scala minore della crisi asiatica del 1998 che l’anno dopo contagiò anche il Messico. Abbiamo già scritto, con il conforto successivo dell’autorevole Financial Times, che non c’è nessun contagio ma una serie di casi singoli.

CHIUSI I CANALI DI SUSSIDIO GLOBALE


Ma tra alcuni osservatori americani si sta facendo strada un’altra spiegazione del rallentamento a macchia di leopardo che sta interessando diverse economie del mondo. Potrebbe essere l’effetto del fatto che gli americani hanno smesso di sussidiare l’economia degli altri. Fino all’arrivo di Trump i canali del sussidio erano sostanzialmente tre. Il primo era costituito da un livello di tariffe all’ingresso molto basse rispetto agli altri paesi. Il secondo da una tassazione degli utili delle corporation tra le più alte del mondo. Il terzo, di cui si lamentava sin dagli anni '90 il ministro del Tesoro di Clinton, Bob Rubin, è il fatto che gli americani agiscono sulla platea economica globale come ‘consumatori di ultima istanza’. Se i tedeschi preferiscono accumulare marchi che fare shopping, gli americani preferiscono sforare il plafond della carta di debito piuttosto che rinunciarci. I primi due canali The Donald li ha chiusi o li sta chiudendo, con la riforma fiscale e con le cosiddette guerre commerciali. Il terzo è un po’ più difficile. È più semplice far guadagnare di più agli americani che convincerli a spendere di meno.

BlackRock vede possibili sorprese al rialzo negli USA


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LE DIFFERENZE CON NIXON E REAGAN


Non è la prima volta che l’America cerca di eliminare una penalizzazione indesiderata negli scambi globali. Lo fece Nixon nel 1971 sganciando il dollaro dall’oro, lo fece Reagan oltre 10 anni dopo con il suo colossale taglio alle tasse. In entrambi i casi l’effetto nell’immediato fu tonificante per l’economia USA e deprimente per quelle degli altri. Ma Nixon un anno dopo fu investito dal Watergate e negli anni successivi gli shock petroliferi e l’inflazione fecero deragliare la ripresa americana e globale, mentre a Reagan andò moto meglio e nel giro di un paio d’anni la crescita globale ripartì sostenuta da un’America che aveva ritrovato il suo ruolo di locomotiva del pianeta.

L’ITALIA HA MENO DA TEMERE


È troppo presto per valutare l’impatto della svolta di Trump su un’economia globale dove i paesi emergenti giocano il ruolo dei protagonisti, e non delle comparse, come 50 o 35 anni fa. Sull’Europa l’impatto è diverso, non favorevole per Germania e Francia, ma forse potenzialmente positivo per l’Italia. A 10 anni dalla crisi l’Italia che ha rialzato la testa è fatta di esportatori che vincono non per i prezzi bassi, ma per la qualità alta. Le eccellenze della moda, del design e dell’alimentare, per non parlare della tecnologia, si vendono bene non perché costano poco ma perché sono le migliori sul mercato. E i concorrenti, a differenza di Germania e Francia, come ad esempio nell’auto, non stanno in America. Quindi non ci sono da temere né i dazi né le tasse più basse della Corporate America.

Italia e i mercati: non vanno confusi, ma vanno ascoltati


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BOTTOM LINE


Sulla porta di quest’Italia chi sta al governo dovrebbe appendere un cartello con scritto in grande ‘NON DISTURBARE’, concentrandosi sulla pulizia di bilancio per evitare che l’Italia vincente non sia frenata dal peso aggiuntivo di credito più difficile e sistema paese più costoso causati dallo spread che si allarga e dal costo del debito che aumenta.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)

Attese & Mercati – Settimana dal 10 settembre 2018


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