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Attese & Mercati – Settimana dal 19 novembre 2018

Ai titoli dell'S&P 500 non basta più battere le attese, il mercato vuole visibilità sul futuro. India al bivio tra stretta monetaria e stimolo azzardato. Debito GE a un passo dal junk, è il canarino nella miniera?

19 Novembre 2018 08:38

WALL STREET PUNISCE CHI BATTE LE ATTESE


La stagione delle trimestrali a Wall Street è praticamente agli sgoccioli, il 92% delle società dello S&P 500 ha pubblicato i risultati e il 78% ha riportato utili per azione superiori alle attese mentre il 61% ha battuto le stime in termini di fatturato. Eppure il mercato continua a essere nervoso e a strappare su e giù con una certa violenza. Le trimestrali dovevano essere il catalizzatore del rimbalzo dopo la correzione di ottobre, e invece sembra di no. Come mai? Una risposta l’abbiamo trovata sul WSJ che fa il caso di ben 161 titoli che hanno battuto le attese e come risultato sono calati in media del 5,5% nei due giorni successivi, alcuni con ribassi a due cifre. La spiegazione è che ormai gli investitori non premiano utili sopra le attese a meno che non siano accompagnati da previsioni positive per i prossimi trimestri. E nei prossimi trimestri quello che vede il mercato sono effetti in esaurimento del taglio alle tasse, dollaro forte che punisce le esportazioni e Fed che alza i tassi. Con la conseguenza che utili migliori delle attese sono guardati con sospetto perché riflettono un passato roseo ma non promettono un futuro brillante.

[caption id="attachment_132413" align="alignnone" width="550"]L'andamento degli utili per azione (linea arancione) e dell'S&P500 (linea blu) Fonte: Macrotrends L'andamento degli utili per azione (linea arancione) e dell'S&P500 (linea blu) Fonte: Macrotrends[/caption]

GLI IMPREVEDIBILI ALTI E BASSI DEL PETROLIO


Settimana scorsa il prezzo del petrolio è scivolato in territorio Orso con uno scivolone del 7% solo nella giornata di lunedì 13. Un mese fa il Brent viaggiava sopra gli 85 dollari e faceva parlare a molti di quota 100 ormai in vista, invece è tornato indietro in area 60. Sui giornali leggiamo che i francesi sono in piazza contro il caro petrolio. Non è un errore di stampa, ma l’effetto della tassa sui carburanti introdotta da Macron a fine 2017 per scoraggiare le emissioni e incoraggiare l’economia verde che ha iniziato a mordere proprio ora, perché gli effetti di un Brent a 85 dollari si fanno sentire alla pompa qualche settimana dopo. A fine settimana la corsa al ribasso sembra essersi fermata, ma in questo momento nessuno si azzarda a fare previsioni. Dai massimi di ottobre ai minimi di novembre l’escursione al ribasso ha sfiorato il 30%. Se il trend non cambia vorrà dire pressione al ribasso per l’inflazione nella seconda metà dell’anno prossimo, proprio quando molti si aspettano che l’attuale ciclo economico si avvii a conclusione e che vengano a mancare le motivazioni per tassi in rialzo nell’area delle economie sviluppate. Ora si parla di tagli alla produzione dell’Opec, ma non è detto che funzionino. La lezione è che le previsioni sul prezzo del petrolio restano uno degli esercizi più impervi.


ALLERTA MONETARIA IN SALSA INDIANA


Il 2019 non è un anno elettorale cruciale solo in Europa, ma anche in India. Il premier Modi vuole arrivare alle elezioni generali della primavera dell’anno prossimo con un’economia in ripresa, e vorrebbe incoraggiarla con misure di stimolo. Ma la Banca Centrale, preoccupata da una rupia che da inizio anno è stata la peggior moneta asiatica e da pesanti deflussi di capitali dal mercato dei bond, a tutto sta pensando tranne che a uno stimolo monetario. Il manuale del banchiere centrale in questa situazione dice che bisogna alzare i tassi. Il governatore Urjit Patel non vuole che l’India faccia la fine di Turchia e Argentina qualche mese fa e difende la sua indipendenza, ma Modi ha minacciato di far ricorso a un articolo dello statuto della banca che consente al governo di dettare la politica monetaria. Storia da seguire con attenzione, l’India è un po’ più grande di Turchia e Argentina messe insieme.


UN CANARINO NELLA MINIERA DA $75 MLD


Il 12 marzo del 2009, nei giorni in cui lo S&P 500 toccava il minimo satanico post Lehman a 666 punti, General Electric perdeva ad opera di Moody’s la prima A del suo rating da sempre al top globale. Quasi 10 anni dopo ha perso anche la terza A per diventare una BBB+, sempre investment grade ma sempre più vicina allo stato junk. L’affidabilità del suo debito è valutata più o meno come quella del Tesoro italiano. E’ un caso isolato o il segnale di un possibile trend? Secondo alcuni GE è il canarino nella miniera del mercato del debito corporate americano, quello che con la sua morte avverte i minatori che si stanno sprigionando gas mortali ed è meglio tagliare la corda e tornare in superfice. In pratica, se le B di GE dovessero diventare due dovrebbe scattare il ‘si salvi chi può’. I tassi bassissimi con cui le banche centrali hanno curato la Grande Recessione ha gonfiato il debito corporate in tutto il pianeta. In America il debito corporate di società non finanziarie oggi vale oltre il 73% del PIL, secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, mentre non aveva mai superato il 65% prima del 2008. In Francia è aumentato di quasi un terzo negli ultimi 10 anni e in Cina di oltre due terzi. Il ritorno alla normalità monetaria ad opera della Fed consentirà uno sgonfiamento morbido? Tenere d’occhio il canarino da 75 mld di dollari che si chiama GE.
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