cina
È finalmente tornata l’ora delle banche?
PIL e occupazione evidenziano la ripresa dell’economia USA, ma per saggiarne la solidità bisogna guardare agli istituti bancari.
4 Settembre 2017 10:03
L’economia americana sta tornando a fare la locomotiva del pianeta con gli altri vagoni ben agganciati a velocità di crociera. Una lettura in controluce degli ultimi dati su PIL e occupazione dice che quella a stelle e strisce è una ripresa alimentata dalla Corporate America, che è tornata a investire e continua a creare posti di lavoro. Il job report di venerdì, anche se sotto le attese nei numeri finali, mostra che il settore privato assume e il settore pubblico dimagrisce, decisamente un indicatore di salute e non di attività drogata dalla spesa governativa. Wall Street ne prende atto e archivia il primo mese di agosto con il segno più dal 2014. E l’obiettivo di una crescita al 3% per l’intero anno, anche se ancora improbabile, non sembra più solo una promessa elettorale difficile da mantenere. Dopo la pausa del Labor Day di lunedì 4 settembre si tornerà a fare sul serio e si vedrà se il trend positivo di economie e mercati ha gambe per camminare. Per tentare di capirlo andiamo a vedere come stanno le cose dove tutto è cominciato, in America e nel resto del mondo, dieci anni fa: le banche.
Mai più too big to fail è stato il mantra di regolatori e istituzioni dopo la crisi. La fotografia scattata nel 2006-2007 delle prime 10 banche per asset, cioè per dimensione dell’attivo fatto a sua volta di prestiti, strumenti finanziari detenuti e partecipazioni in portafoglio, ritraeva ben sette banche europee e solo tre americane. Dieci anni dopo alcune delle europee, come UBS, RBS, Deutsche Bank e Barclays, sono precipitate dalla testa alla coda della classifica. Rispettivamente, nell’ordine, ai posti numero 25, 23, 15 e 16. HSBC, BNP e Agricole sono riuscite a rimanere nel gruppetto di testa, sia pure in coda.
Le americane sono rimaste tre, JP Morgan, Bank of America e Wells Fargo, con Citi scivolata dalla quarta alla dodicesima posizione e le altre tre rispettivamente al sesto, ottavo e decimo posto. Tra le prime cinque, quattro sono cinesi. Dieci anni fa la prima di oggi, ICBC, era ventesima. Le altre viaggiavano intorno alla posizione numero 30. L’unica non cinese è Mitsubishi. Un colossale rimescolamento di carte, che non vuol però dire che le grandi banche siano diventate più piccole. Soprattutto le americane, sono diventate ancora più grandi, grazie anche alle acquisizioni-salvataggio del dopo Lehman. Ma la crescita del settore creditizio cinese è stata talmente esponenziale da eclissare le altre.
Il mantra del dopo crisi sembra così clamorosamente smentito dai fatti. Anche se le banche cinesi sono molto diverse da quelle americane e europee. Di fatto sono delle agenzie governative con sopra scritto banca. Ma i loro asset sono costituiti per grandissima parte da prestiti e mutui al settore privato, non da strumenti finanziari sofisticati come per le americane e le europee del Nord. E alle spalle hanno uno stato azionista che dispone di risorse finanziarie praticamente illimitate, migliaia di miliardi di dollari di riserve accumulate in vent’anni di surplus commerciale nei confronti di America, Europa e resto del mondo. Quando esagerano, prestando soldi a manetta alle grandi conglomerate cinesi affamate di acquisizioni in Europa e America, dal calcio italico alle grandi banche come Deutsche Bank, arriva l’azionista-stato e dà una brusca tirata alle briglie lasciate troppo lente.
Un caso Lehman in Cina è tecnicamente impossibile. Se una grande banca entrasse in difficoltà non ci sarebbe bisogno di un intervento del governo, perché è già lì. In Giappone non è così solo da un punto di vista formale, tecnicamente le banche sono private, ma dal punto di vista sostanziale la presa dello stato sul credito è tale da mettere anche le banche del Sol Levante al riparo da casi Lehman. Una curiosità: nel 1990, al culmine della bolla del Sol Levante, le prime 5 banche del globo per asset erano giapponesi, come oggi accade per la Cina. Da allora il dragone si è sgonfiato drasticamente ma senza un impatto sistemico globale.
Del tutto diversa la situazione in America e in Europa. Una grande contraddizione sta venendo al pettine. Da un lato si continua a dire, soprattutto nel vecchio continente, mai più too big to fail. Ma dall’altra si comincia a dire che ci sono troppe banche, e che un processo di consolidamento è necessario, anche qui soprattutto nel vecchio continente. In America si sta tornando a dare un ruolo sempre più importante al mercato come ‘regolatore di ultima istanza’. In Europa si chiede alle banche di fare due cose contraddittorie: da un lato di dimagrire, dall’altro di aggregarsi, quindi di crescere. È verosimile che alla fine prevarrà la seconda spinta. Le banche europee si stanno gettando alle spalle uno dei principali problemi di questi anni, le multe e le sanzioni miliardarie piovute soprattutto da USA e Gran Bretagna. L’altro problema, che affligge soprattutto quelle del Sud Europa e che si chiama sofferenze, si sta piano piano avviando a soluzione. Il problema principale, rappresentato dal ritardo rispetto alle americane nei business più redditizi, quelli dell’investment banking, si può risolvere solo recuperando dimensioni globali.
Bottom line. Se il quadro generale che ci regalano economie e mercati dopo la pausa agostana viene confermato in autunno, le banche europee sembrano una scommessa più che ragionevole nella prospettiva di un aggiustamento di portafoglio che cominci a guardare al 2018. L’Italia sembra un terreno periferico di questo gioco, perché le grandi banche italiane vivono se stesse più come possibili prede che come predatrici. Ma il fatto che il più grande investitore italiano, che porta il nome di Assicurazioni Generali, abbia deciso di incrementare le partecipazioni bancarie in portafoglio vorrà pur dire qualcosa.
Mai più too big to fail è stato il mantra di regolatori e istituzioni dopo la crisi. La fotografia scattata nel 2006-2007 delle prime 10 banche per asset, cioè per dimensione dell’attivo fatto a sua volta di prestiti, strumenti finanziari detenuti e partecipazioni in portafoglio, ritraeva ben sette banche europee e solo tre americane. Dieci anni dopo alcune delle europee, come UBS, RBS, Deutsche Bank e Barclays, sono precipitate dalla testa alla coda della classifica. Rispettivamente, nell’ordine, ai posti numero 25, 23, 15 e 16. HSBC, BNP e Agricole sono riuscite a rimanere nel gruppetto di testa, sia pure in coda.
Le americane sono rimaste tre, JP Morgan, Bank of America e Wells Fargo, con Citi scivolata dalla quarta alla dodicesima posizione e le altre tre rispettivamente al sesto, ottavo e decimo posto. Tra le prime cinque, quattro sono cinesi. Dieci anni fa la prima di oggi, ICBC, era ventesima. Le altre viaggiavano intorno alla posizione numero 30. L’unica non cinese è Mitsubishi. Un colossale rimescolamento di carte, che non vuol però dire che le grandi banche siano diventate più piccole. Soprattutto le americane, sono diventate ancora più grandi, grazie anche alle acquisizioni-salvataggio del dopo Lehman. Ma la crescita del settore creditizio cinese è stata talmente esponenziale da eclissare le altre.
Il mantra del dopo crisi sembra così clamorosamente smentito dai fatti. Anche se le banche cinesi sono molto diverse da quelle americane e europee. Di fatto sono delle agenzie governative con sopra scritto banca. Ma i loro asset sono costituiti per grandissima parte da prestiti e mutui al settore privato, non da strumenti finanziari sofisticati come per le americane e le europee del Nord. E alle spalle hanno uno stato azionista che dispone di risorse finanziarie praticamente illimitate, migliaia di miliardi di dollari di riserve accumulate in vent’anni di surplus commerciale nei confronti di America, Europa e resto del mondo. Quando esagerano, prestando soldi a manetta alle grandi conglomerate cinesi affamate di acquisizioni in Europa e America, dal calcio italico alle grandi banche come Deutsche Bank, arriva l’azionista-stato e dà una brusca tirata alle briglie lasciate troppo lente.
Un caso Lehman in Cina è tecnicamente impossibile. Se una grande banca entrasse in difficoltà non ci sarebbe bisogno di un intervento del governo, perché è già lì. In Giappone non è così solo da un punto di vista formale, tecnicamente le banche sono private, ma dal punto di vista sostanziale la presa dello stato sul credito è tale da mettere anche le banche del Sol Levante al riparo da casi Lehman. Una curiosità: nel 1990, al culmine della bolla del Sol Levante, le prime 5 banche del globo per asset erano giapponesi, come oggi accade per la Cina. Da allora il dragone si è sgonfiato drasticamente ma senza un impatto sistemico globale.
Del tutto diversa la situazione in America e in Europa. Una grande contraddizione sta venendo al pettine. Da un lato si continua a dire, soprattutto nel vecchio continente, mai più too big to fail. Ma dall’altra si comincia a dire che ci sono troppe banche, e che un processo di consolidamento è necessario, anche qui soprattutto nel vecchio continente. In America si sta tornando a dare un ruolo sempre più importante al mercato come ‘regolatore di ultima istanza’. In Europa si chiede alle banche di fare due cose contraddittorie: da un lato di dimagrire, dall’altro di aggregarsi, quindi di crescere. È verosimile che alla fine prevarrà la seconda spinta. Le banche europee si stanno gettando alle spalle uno dei principali problemi di questi anni, le multe e le sanzioni miliardarie piovute soprattutto da USA e Gran Bretagna. L’altro problema, che affligge soprattutto quelle del Sud Europa e che si chiama sofferenze, si sta piano piano avviando a soluzione. Il problema principale, rappresentato dal ritardo rispetto alle americane nei business più redditizi, quelli dell’investment banking, si può risolvere solo recuperando dimensioni globali.
Bottom line. Se il quadro generale che ci regalano economie e mercati dopo la pausa agostana viene confermato in autunno, le banche europee sembrano una scommessa più che ragionevole nella prospettiva di un aggiustamento di portafoglio che cominci a guardare al 2018. L’Italia sembra un terreno periferico di questo gioco, perché le grandi banche italiane vivono se stesse più come possibili prede che come predatrici. Ma il fatto che il più grande investitore italiano, che porta il nome di Assicurazioni Generali, abbia deciso di incrementare le partecipazioni bancarie in portafoglio vorrà pur dire qualcosa.