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Idee di investimento – Obbligazioni – 11 aprile 2016

11 Aprile 2016 09:16

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forzamento dell’euro sul dollaro non piace soprattutto agli esportatori europei (e quindi anche a quelli italiani) che vedono le proprie merci e servizi diventare meno competitivi sui mercati internazionali, soprattutto in quello americano. Ma secondo gli esperti dell’Europe Economic Research di Credit Suisse non c’è più bisogno di un euro debole. “L’area dell’euro è passata da una ripresa in parte dipendente da uno stimolo derivante dalla domanda esterna ad una ripresa sempre più trainata dalla domanda interna. Questo è importante perché implica anche un cambiamento nella rilevanza del tasso di cambio per la crescita e per la politica della banca centrale europea” fanno sapere gli esperti di Credit Suisse nell’articolo “Perché non c’è più bisogno di un euro debole”.

Se all’euro forte sul dollaro aggiungiamo poi i tassi di interesse in territorio negativo nella zona euro, la ricerca di rendimento per gli investitori diventa sempre più difficile e comporta un approccio globale ai mercati rispettando una regola molto importante, soprattutto in questo contesto: la diversificazione, come unico valido strumento per l’investitore che punta non solo a massimizzare il rendimento, ma anche a controllare il grado di rischio nel portafoglio. Solo così è infatti possibile scegliere tra le varie asset class e tra i mercati alla ricerca di valore e rendimento. Ad esempio il rendimento del dividendo dell’Indice MSCI Europa è pari a circa il 4% a fronte di un rendimento del Bund decennale limitato allo 0,1% o del Btp di pari scadenza dell’1,3%. Allo stesso modo, aumentando il profilo di rischio, si può allocare una quota del portafoglio in titoli corporate high yield e nel debito dei mercati emergenti. Un esercizio al quale i risparmiatori europei (e italiani) dovranno abituarsi: Maria Paola Toschi, Market Strategist di J.P. Morgan Asset Managemen, come spiega nell’articolo “Tassi di interesse negativi, la regola d’oro della diversificazione”, ritiene infatti che i tassi negativi potrebbero restare a lungo, soprattutto in Europa, almeno fino a quando le banche centrali dovranno combattere il rischio di deflazione.

Resta tuttavia fondamentale che gli investitori prestino attenzione a non farsi trascinare dalle politiche delle banche centrali verso allocazioni di portafoglio che siano al di là della propria tolleranza al rischio. È quanto raccomanda di fare, nell’articolo “Portafogli, non bisogna stravolgere la propria tolleranza al rischio”, David Lafferty, Chief Market Strategist di Natixis Global Asset Management che ha analizzato gli effetti collaterali del micidiale mix «programma di quantitative easing (ovvero stampare moneta) e tassi di interesse negativi». Questi ultimi, in particolare, comportano implicazioni reali sul portafoglio degli investitori, aggravando la ricerca disperata di rendimenti sul mercato obbligazionario che è ormai in corso da qualche tempo. Ma i tassi negativi rappresentano anche un enorme macino sulla ripresa della redditività del settore bancario.

A questo proposito, Carlo Benetti, Head of Market Research and Business Innovation di GAM (Italia) SGR, indica qualche elemento favorevole al settore bancario. Secondo il manager, in particolare, si deve evitare di confondere gli andamenti dei prezzi di borsa con la qualità dei fondamentali del settore e delle banche che stanno completando un difficile processo di ristrutturazione. Negli anni successivi allo shock del 2008 sono stati iniettati mezzi freschi, sono stati ripuliti i bilanci del trading, è migliorata la qualità del credito ed oggi il sistema bancario europeo, nel suo complesso, si presenta sufficientemente attrezzato: gli stress test condotti sulle banche europee dall’EBA, il nuovo organismo di supervisione, hanno confermato un sistema in sostanziale equilibrio. Tuttavia, come si fa notare nell’articolo “Banche, il differente punto di vista tra azionista e obbligazionista”, mentre chi detiene azioni condivide il rischio di impresa, punta su dividendi generosi e sostenibili e sugli incrementi del prezzo del titolo, chi ha sottoscritto bond bancari presta denaro ad una istituzione in cambio di un interesse, riconosciuto con una cedola periodica, e della promessa di restituzione del capitale ad una certa data futura. Ne deriva che le ipotesi circa possibili nuove ricapitalizzazioni oppure la riduzione dei dividendi sono cattive notizie per gli azionisti mentre rappresentano una solida rassicurazione agli occhi degli obbligazionisti in quanto si tratta di misure volte a rafforzare il capitale, dunque la capacità di onorare le promesse di cedole e rimborso.

Infine, una riflessione sull’inflazione. Christophe Bernard, Chief Strategist di Vontobel, nell’articolo “Meno azioni e più obbligazioni anti-inflazione USA”, rivela: “Abbiamo aumentato ulteriormente la nostra esposizione ai titoli del Tesoro USA protetti dall’inflazione, poiché riteniamo interessante il profilo di rischio/rendimento”. Secondo lo strategist, infatti, la banca centrale statunitense (Federal Reserve) sembra sottovalutare il rischio, a suo avviso tutt’altro che irrilevante, che l’inflazione superi le attese. Christophe Bernard ha anche effettuato prese di profitto sulle materie prime dopo una forte ripresa del prezzo del greggio, salito del 50% dai minimi di gennaio, e reinvestito i proventi nel debito dei mercati emergenti in valuta forte. Lo strategist ha poi approfittato della correzione del dollaro americano per ricostituire l’esposizione, poiché ritiene che la fase di consolidamento dovrebbe lasciare spazio a un rafforzamento del biglietto verde.