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Maurizio Novelli

Riconoscere ai lavoratori il dividendo della crescita

12 Febbraio 2015 11:00
financialounge -  Maurizio Novelli salari Zest Asset Management
Dal 2007 ad oggi, il mondo è stato scosso da almeno tre crisi «sistemiche». Quella dell’estate 2007, con la bolla dei mutui subprime americani, quella del 2008-2009, relativa al fallimento della banca d’affari Usa Lehman Brothers e quella dell’estate 2011, scatenata dal debito sovrano della zona euro. Un periodo lungo durante il quale i mercati finanziari delle più importanti economie mondiali sviluppate (Stati Uniti, Germania, Regno Unito) sono ritornati sui massimi pre crisi mentre gli altri (resto d’Europa, Giappone e Paesi emergenti) hanno comunque recuperato buona parte delle perdite accumulate dai massimi. Merito delle politiche monetarie e, in particolare, quelle più espansive (Quantitative easing) messe in campo dalla Federal Reserve e dalla Bank of England che hanno permesso alle banche e agli investitori di disporre di tutta la liquidità necessaria per evitare fallimenti e un blocco del sistema finanziario.
Alcuni attenti osservatori fanno tuttavia notare che, nonostante questo apparente ritorno alla «normalità» dei mercati, in realtà sullo sfondo, resta il vero e irrisolto problema che sta alla base di questa profonda crisi: la mancanza di domanda. In pratica le richieste di mutui e finanziamenti, le domande per beni di consumo di prima necessità e discrezionali, e gli ordini di macchinari e apparecchiature industriali, evidenziano un ritmo modesto di crescita se non, addirittura, una contrazione. Una carenza di domanda legata alla mancanza di lavoro e, dove questo c’è (Usa; Germania e Regno Unito), con salari non molto superiori a quelli pre crisi.
Un disallineamento, quello tra economia reale e mondo finanziario, che deve essere colmato per tornare a una crescita sostenibile. Una convinzione condivisa anche dal primo ministro inglese David Cameron che, dopo aver avuto la conferma che la crescita annua della Gran Bretagna potrebbe mantenersi tra il 2,4% e il 2,6% nei prossimi due anni (dopo il +2,6% del 2014 e il +1,7% dell’anno precedente), ha invitato le imprese a dare ai lavoratori il «dividendo della crescita»: un aumento degli stipendi che riconosca anche agli occupati il miglioramento dell’economia. Al di là del contesto elettorale (il 7 maggio si terranno nel paese le elezioni politiche dall’esito, in base agli ultimi sondaggi, molto incerto), la presa di posizione del premier inglese è importante per affrontare il problema di aumentare il salario dei dipendenti, passaggio fondamentale per aumentare la disponibilità delle famiglie a maggiori consumi.
“Il vero problema che affligge l'economia mondiale dall'inizio del 2008 è il calo della domanda globale che si pensa, in tutto il mondo, di poter risolvere facilmente sostenendo, con le politiche monetarie, il real estate e i mercati finanziari. Purtroppo non di solo real estate e finanza può vivere l'economia. Difficilmente ripartiremo dai settori che hanno provocato la crisi, quanto piuttosto da politiche di sostegno dei redditi reali, unica vera fonte di sostenibile domanda di cui l'economia ha bisogno” dice Maurizio Novelli, Global Strategist di Zest Asset Management che poi però aggiunge: “Le idee politiche di alzare i salari agendo sul cosiddetto «salario minimo» non sono a mio parere sufficienti. Di solito il salario minimo viene applicato su una percentuale molto bassa della popolazione e di norma le variazioni imposte per legge sono comunque modeste (3% / 4%) e su salari molto bassi. Inoltre in questo modo i governi tendono a scaricare il costo di un adeguamento salariale sull’industria".
Poichè siamo in un mondo dove il costo del lavoro è ancora uno dei principali driver della delocalizzazione produttiva e della competizione internazionale, aumentare il costo del lavoro con questi meccanismi non può essere una leva particolarmente ampia e significativa, altrimenti si rischia di incidere sul livello di competitività del sistema.
“In realtà il mio pensiero si riferiva alle politiche fiscali. Anzichè attuare politiche fiscali Keynesiane incentrate sulla spesa pubblica si dovrebbero fare politiche fiscali espansive detassando i redditi ed aumentando quindi i salari mediante lo strumento fiscale. Le politiche di spesa pubblica attuate finora in Europa e in Giappone non hanno prodotto nessun aumento dei redditi reali, anzi, il tutto è stato finanziato con maggiori tasse che hanno ulteriormente depresso il reddito reale disponibile. Il risultato è stato che il debito è aumentato ma la crescita non ha ricevuto alcun impulso. Ritengo attualmente solo questa la via per risolvere il problema del calo della domanda, che è legato al calo dei redditi e dei consumi in tutto il mondo occidentale” puntualizza Maurizio Novelli che ritiene sia giunto il momento di riflettere se i governi debbano necessariamente intermediare la domanda raccogliendo più tasse dal settore privato per spendere al suo posto in modo dubbio e non sempre in misura efficiente.
“Le politiche di spesa pubblica attuate secondo le politiche Keynesiane dipendono molto nella loro efficacia dal moltiplicatore fiscale di ogni singolo paese. In Italia ad esempio il moltiplicatore fiscale è stato decisamente pessimo negli ultimi 15 anni: basti pensare che, ad un aumento della spesa pubblica e del debito, si è avuta crescita economica in costante indebolimento fino alla stagnazione degli ultimi 5 anni. Esempio evidente di un moltiplicatore fiscale decisamente pessimo” conclude Maurizio Novelli.
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