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Perché i fondi bocciano la clausola di onorabilità

29 Maggio 2014 11:00

financialounge -  MEF
i è stato il turno di Terna: in precedenza era successo già a Eni e Finmeccanica: l’assemblea dei soci ha bocciato la cosiddetta clausola di onorabilità richiesta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) e recepita dalla Cassa Depositi e prestiti.

Tale norma fissava l’ineleggibilità e la decadenza degli amministratori della società per una serie di reati, anche in caso di sentenza di condanna non definitiva. A votare a favore di tale clausola i soci del Tesoro mentre si sono schierati contro, e quindi l’hanno bocciata, gli investitori istituzionali e, in particolare, i fondi comuni. Ma perché hanno votato contro?

La loro scelta non vuole essere nessun lasciapassare per gli amministratori e i manager truffaldini o che si macchino di condanne quanto piuttosto la garanzia che provvedimenti giudiziari, legittimi ma limitati al solo avviso di garanzia o ad accuse tutte da provare poi in sede giudiziaria, non pregiudichino l’operatività della società o la normale attività aziendale.

Il punto più contestato dai responsabili dei fondi presenti in assemblea è infatti l’automatismo, imposto dalla clausola, che di fatto può ingessare il vertice della società: se un amministratore è raggiunto anche da un semplice rinvio a giudizio per reati contro la pubblica amministrazione o per danni al fisco, deve darne comunicazione entro 10 giorni al consiglio di amministrazione che può constatare i rilievi mossi oppure rimandare la decisione finale all’assemblea dei soci da svolgersi entro due mesi.

Un tempo lungo, durante il quale la società quotata potrebbe subire forti ripercussioni in Borsa. Secondo alcuni esponenti dei gestori, per rispettare le esigenze del Mef e quelle degli investitori la formula più idonea potrebbe essere quella di limitare la decadenza dell’amministratore solo nei casi di condanna in primo grado e nei patteggiamenti.

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