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Il lusso ora parla cinese

27 Febbraio 2014 11:25
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Il lusso made in Italy è sempre meno italiano e più globale. Chiuse le sfilate di moda femminile è ora di bilanci. Se da un lato si sono registrati dei buoni risultati, grazie anche a nuove partnership ed alleanze, ultima quella promossa dal capoluogo lombardo tra moda e design in vista dell’Expo2015, è necessario fermarsi a fare una riflessione su dove stanno andando i grandi nomi che hanno fatto la storia dell’eccellenza del Made in Italy.

I rumors ormai si susseguono giorno dopo giorno e l’ultimo che si registra è quello su Krizia. Stando alle ultime notizie, questa è stata l’ultima sfilata di Mariuccia Mandelli per il brand dell’abbigliamento fondato nel 1954. Il motivo è stato diramato poco dopo: il brand ora appartiene al gruppo cinese Shenzhen Marisfrolg e Zhu Chongyun sarà la prossima direttrice creativa.

Ma Krizia è solo l’ultimo dei grandi brand italiani predati da gruppi stranieri. Prima il colosso Lvmh che ha allungato le sue mani su Loro Piana, Bulgari e Fendi; poi ancora la cessione di Pal Zileri al fondo del Qatar, preceduto dall’acquisto di Valentino; infine la decisione di Gianfranco Ferrè di chiudere l’attività in Italia per spostare la sua seconda linea in Oriente, dove è stata concessa la licenza fino al 2024, lasciando così a casa i restanti 40 dipendenti con sole tre mensilità.

D’altronde che il fashion Made in Italy faccia gola a molti stranieri è cosa nota e lo dimostrano i numeri appena pubblicati dall’Istat. A fronte di un calo delle vendite nel nostro Paese del 3% registrato nel 2013 per calzature ad articoli di cuoio, l’export ha registrato un forte rialzo, in particolare nel comparto borse.
I dati vanno letti tenendo presente la crisi che attanaglia il nostro paese. Ma c’è anche chi in questa situazione economica difficile può permettersi di comprare articoli di extra lusso.

Secondo la ricerca pubblicata dal Fortune Carachter Institute di Shanghai, la Cina ha acquistato il 47% di tutti i beni di lusso venduti nel mondo, spendendo oltre 100 miliardi di dollari in vestiti, scarpe, borse, gioielli ed orologi.
Per essere sicuri di non acquistare capi contraffatti il 57% degli acquisti cinesi viene effettuato durante viaggi all’estero, nelle città mecca della moda: New York, Parigi, Tokyo e Milano. Il 23% invece viene eseguito attraverso ordinazioni a distanza e solo il 20% viene speso in negozi che si trovano sul suolo cinese. Tutto questo mentre sono in corso i primi tentativi per combattere il fenomeno ampiamente diffuso del falso, attraverso campagne governative che stanno dando i primi timidi risultati: proprio due giorni fa il marchio del bassotto italiano Harmont & Blaine è stato riconosciuto come oggetto di usurpazione da parte di un’azienda cinese, che aveva registrato un nome ed un logo praticamente identici a quello della casa di moda italiana.

Un caso che nel febbraio 2012 aveva portato il brand tricolore a chiudere 12 boutique in Cina, store che dopo anni di battaglie legali, potranno finalmente riaprire e portare nuovo fatturato al gruppo italiano, come sottolinea l’amministratore delegato Domenico Minniti: “La sentenza, che mette la parola fine a dieci anni di liti giudiziarie, ci ripaga delle sofferenze patite e ci induce a riprendere un percorso interessante nell’area della Great China. Abbiamo già ripreso i contatti con il nostro partner ed entro la fine del 2015 contiamo di ritornare almeno al livello del 2012, con l’apertura di 12 nuove boutique. L’area della Grande Cina potrà arrivare a rappresentare il 12-15% del fatturato del Gruppo”.
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