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Capitale o rendita?

6 Dicembre 2012 08:00
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Sono molte le famiglie italiane che stanno per concludere il piano di versamenti di una polizza vita a premi ricorrenti. Si tratta di contratti assicurativi misti, cioè il cui premio è in parte utilizzato per la copertura della premorienza dell’intestatario del contratto e in parte utilizzati in strumenti finanziari per costruirsi un capitale o una rendita.

In pratica, il nucleo familiare si impegna a versare un premio annuo (che talvolta può essere a cadenza semestrale, trimestrale o anche mensile) alla compagnia per ricevere in cambio, alla conclusione del piano di versamenti della durata di solito di 10,15 o 20 anni, un capitale rivalutato o una rendita. Il dilemma che attanaglia la famiglia è cosa scegliere tra l’una (il capitale) o l’altra (rendita) opzione.

La conversione del capitale in rendita prevede, a sua volta tre possibilità a scelta del beneficiario: a) la rendita vitalizia, cioè un pagamento di un importo annuale che si rivaluta in base al tasso di rendimento di un fondo interno assicurativo; b) la rendita certa per cinque o 10 anni, che prevede un pagamento di importo inferiore al caso a) ma che assicura per 5 o 10 anni l’erogazione della rendita anche in caso di decesso del beneficiario; c) una rendita reversibile, pagata al beneficiario finchè è in vita per poi passare al secondo beneficiario designato.

Se si opta per il capitale, invece, il beneficiario incassa tutto in una soluzione quanto maturato. Secondo gli esperti questa soluzione può essere preferita alla rendita nel caso in cui si investa il capitale in uno strumento capace di offrire un rendimento interessante in assoluto o, meglio ancora, in rapporto all’inflazione.

Se, per esempio, si impiega il capitale maturato in un fondo comune a gestione attiva capace di offrire un buon rendimento nel medio lungo termine è possibile ottimizzare il capitale incassato dalla compagnia. In alternativa, dal momento che non sempre è possibile individuare un fondo comune con queste caratteristiche, si può sottoscrivere un titolo di Stato anti inflazione, come per esempio il Btp Italia dell’ottobre 2012 che paga un tasso reale (cioè al netto dell’inflazione) del 2,55%.
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