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Tempi duri per i corvi

Wall Street ha assorbito bene il secondo ‘setback’ del 2018 e dall’economia vengono segni più che positivi. Per ora le previsioni di recessione in arrivo sembrano infondate. Ma quando arriverà, coglierà l’Europa meno preparata degli americani.

7 Maggio 2018 08:33
financialounge -  dollaro euro Federal Reserve occupazione petrolio recessione tassi di interesse USA Weekly Bulletin

Tra fine marzo e aprile Wall Street ha messo in scena una replica meno drammatica dello storno di fine gennaio-inizio febbraio. Le ultime due settimane hanno visto gli indici principali chiudere con un saldo negativo, ma ben sopra i minimi grazie ai rally nel finale. La media mobile a 200 giorni dello S&P 500 resta sostanzialmente inviolata e i minimi toccati nel primo arretramento dell’anno non sono stati ritoccati. Intanto la stagione delle trimestrali prosegue bene, mentre dall’economia americana continuano ad arrivare segnali di forza, tanto da far titolare a Bloomberg che l’ondata di dati arrivati nell’ultima decina di giorni dice che l’America “sta bene, se non addirittura alla grande”. Nel dettaglio, con oltre il 60% delle società dello S&P 500 che hanno pubblicato le trimestrali, la crescita degli utili per azione viaggia poco sotto il 25%, con una proiezione intorno al 20% per i prossimi 3 trimestri. Sul fronte macro, la disoccupazione è ai minimi da quasi 20 anni ma senza segni di surriscaldamento sul fronte dei salari, l’attività manifatturiera è robusta con le imprese che fanno fatica a riempire gli organici, le spese in consumi restano elevate, così come il sentiment dei consumatori.

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L’EUROPA HA TENUTO MEGLIO


A differenza dello scossone di tre mesi fa, che aveva fatto bucare violentemente al ribasso la media mobile a 200 giorni dello Stoxx 600, il setback di aprile in Europa non si è quasi sentito, complice certamente un euro che ha smesso di rafforzarsi e ha cominciato anzi a scendere per l’effetto combinato delle parole di Mario Draghi, che dieci giorni fa ha indossato l’abito da colomba migliore che aveva in guardaroba, e del silenzio di Jay Powell. Il numero uno della Fed marcia tranquillo sul percorso di un quartino alla volta, il prossimo a giugno dovrebbe portare i Fed Fund in area 2% per arrivare al 2,25% e forse anche 2,5%  per fine anno. Intanto sono rientrati i timori per il Libor sul dollaro, che nel primo trimestre aveva corso con un rialzo del 60% e in aprile si è assestato abbastanza, anche se su livelli elevati, in area 2,35%. Le diverse reazioni dei due mercati azionari probabilmente riflettono il fatto che il rialzo dei tassi comincia a farsi sentire a Wall Street, mentre l’Europa gode di fattori congiunturali favorevoli, ma con un orizzonte limitato. È un’ulteriore, ma forse l’ultima, finestra di opportunità per la politica di mettere mano alle riforme.

FALSI AVVISTAMENTI DI RECESSIONE


Prima o poi una recessione arriverà, e probabilmente partirà dall’America per contagiare poi il resto del mondo. Non “se” quindi, ma “quando”? Praticamente tutte le previsioni, basate sui diversi indicatori che vanno dalla curva dei tassi americani fino alle stime sul prezzo del petrolio, puntano a una recessione “possibile” solo dopo fine 2019-inizio 2020. Ovviamente c’è chi va alla ricerca dei segni previsori più impensati, come la prof di economia Teresa Ghilarducci che su Forbes si avventura nella correlazione tra picco di occupazione tra i neri americani meno giovani e imminenza di una recessione. In pratica quando il gap razziale degli occupati si riduce ai minimi indica che la ripresa ha toccato il picco e che l’economia si prepara ad arretrare. Un altro argomento citato da chi avvista la recessione è il prezzo del petrolio, proiettato verso un picco di periodo, che potrebbe essere a 80 dollari il barile. Anche questo, storicamente, è un anticipatore di recessione. Si può osservare che più il petrolio sale, più i produttori americani di shale hanno convenienza a trivellare e pompare, inondando di greggio e prodotti il mercato USA e non solo. Nel mondo di oggi, ogni shock petrolifero può trovare un ammortizzatore nella capacità produttiva americana. L’America è diventata una specie di Arabia Saudita, con la differenza che il suo petrolio non deve passare per lo Stretto di Hormuz per arrivare a destinazione.

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IL COSTO DEL DOLLARO


Quello che si può prevedere con un certo margine di certezza è che, se la prossima recessione partirà come probabile in USA, l’onda lunga arriverà più forte in Europa, perché troverà in America una Fed con munizioni sufficienti ad abbassare prontamente i tassi e far ripartire l’economia, mentre i margini di allentamento in Europa e anche in Giappone saranno zero, anzi sotto zero. Intanto l’aumentato costo del denaro in America fa salire il costo del finanziamento per molte imprese europee, che si finanziano in dollari, ma soprattutto per moltissime imprese (e governi) del resto del mondo, che il debito lo emettono quasi esclusivamente in dollari.

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BOTTOM LINE


La recessione ancora non si intravvede, ma prima o poi il suo profilo apparirà all’orizzonte delle navi delle economie globali. La nave americana si sta preparando all’impatto con una normalizzazione monetaria ormai più che a metà strada. Gli altri vascelli, primo tra tutti quello europeo, molto meno. Questo vuol dire che, quando arriverà, gli americani potranno abbastanza agevolmente ‘esportare’ altrove la recessione, come hanno fatto nel 2008-2009 con la grande crisi. Non è ancora il momento di dare ascolto ai corvi che prevedono sventure. Quando smetteranno forse ci sarà da preoccuparsi.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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