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Per qualche dollaro in meno

A quasi vent’anni dalla nascita, l’euro è tornato al punto di partenza sulla valuta USA. Ma a Trump non dispiace un biglietto verde debole.

11 Settembre 2017 09:44
financialounge -  big mac dollaro donald Trump euro mercati valutari

“L’euro schiaccia il dollaro”, “Fuga dal dollaro”, “Euro più forte di Draghi”. Va bene che un titolo è solo un titolo, ma forse un po’ più di equilibrio e memoria non farebbe male ai principali giornali italiani quando si avventurano su uno dei terreni più minati della finanza: quello delle valute. Intanto bisognerebbe mettersi d’accordo sul soggetto: è il biglietto verde che si è indebolito o è la moneta unica che è si è rafforzata? La risposta giusta, in termini ovviamente relativi, è sicuramente la prima. A quasi vent’anni dalla sua creazione, come abbiamo osservato qualche settimana fa, l’euro è tornato quasi esattamente al punto di partenza: nella prima giornata di scambi sul mercato, il 4 gennaio 1999, aveva chiuso a 1,1789 dollari. Alla chiusura di venerdì eravamo sopra di poco più dell’un per cento.

Intorno a 1,20 dollari è in equilibrio? Deutsche Bank dice di sì, il prezzo giusto è 1,19. Per BNP Paribas invece 1,33 è più adeguato. Lo stesso livello viene indicato dal Big Mac Index, che misura il potere d’acquisto delle monete rispetto all’Hamburger. Da notare che lo stesso livello di sottovalutazione rispetto al dollaro il Big Mac lo segnala anche per i dollari australiano e canadese, per il peso argentino e per il bolivar venezuelano. Restiamo un attimo sul Big Mac perché è interessante: le monete più sottovalutate verso il dollaro, oltre il 50%, sarebbero lo yen, il rublo russo e il rand sudafricano. Ma anche i renminbi cinesi e le rupie indiane che si pagano per mangiare un Big Mac sono ancora troppe, la sottovalutazione è stimata tra il 24 e il 50%. L’unica moneta sopravvalutata è il franco svizzero: a Lugano un Hamburger dovrebbe costare il 25% in meno.

E qui siamo al cuore del problema. Da quando Nixon lo ha sganciato dall’oro nel 1971, il valore del dollaro rispetto alle principali valute ha una traiettoria che punta a Sud, non in modo lineare, ma con picchi sempre meno alti e minimi sempre più bassi. Per misurarli non bisogna guardare il cambio con l’euro ma il dollar index, inventato nel 1973 proprio per avere un riferimento dopo lo sganciamento dall’oro. Prendiamo i picchi. Il primo a 160, mai più eguagliato, fu toccato nella prima metà degli anni ‘80, con l’arrivo di Reagan, la sconfitta dell’inflazione e i primi segni di collasso dell’impero sovietico. Il secondo picco arriva nei primi anni 2000, sull’onda del boom di internet. In questa fase l’euro, nato da poco, tocca i minimi di sempre in area 0,80 per un dollaro, ma il biglietto verde è ben lontano dai suoi massimi storici, sul dollar index siamo in area 120. Il terzo picco, in area 100 punti, arriva alla fine del 2016 con uno scatto finale favorito dalla vittoria di Trump. Ma le ragioni di fondo sono la caduta del petrolio e delle commodities e il rallentamento delle economie emergenti, a cominciare dalla Cina. Quello che bisogna capire è se il calo degli ultimi mesi è solo la correzione di un movimento troppo brusco al rialzo che ha però ancora strada da fare, oppure se ci siamo lasciati alle spalle anche il terzo picco su un arco di oltre mezzo secolo.

Se fosse buona la seconda, non sarebbe un cattivo segnale. Vorrebbe dire che la ripresa delle economie emergenti, a cominciare da quella cinese, ha gambe per camminare, che il ciclo delle commodity sta per ripartire magari anche insieme al petrolio che sembra aver fatto una base intorno a quota 50 dollari. Uno scenario del genere ha come sbocco il ritorno di un po’ di inflazione, che consentirebbe alla Fed di riprendere con meno timidezza il cammino del Quantitative Tightening e del rialzo dei tassi, e alla BCE di avere meno paura di iniziare il suo tapering. Per quanto riguarda Trump, anche se tutti scrivono che il dollaro che scende è la firma sulla debolezza della sua presidenza, un dollaro debole non gli dispiace certo, e infatti non si stanca di dirlo da quando ha vinto le elezioni. Non solo perché beni e servizi americani più a buon mercato non possono che far bene all’economia, ma soprattutto perché un dollaro che scende vuol dire un debito pubblico che si svaluta, ovviamente quello in mani estere, che nel caso dell’America non è poco. Il debito americano viaggia verso il 110% del PIL e The Donald non ha certo intenzione di ridurlo, lui che sul debito ha costruito il suo impero.

Bottom line. Una volta si diceva che un dollaro forte faceva bene alle economie e ai mercati, un’ancora salda che teneva tutto insieme. Oggi forse non è più vero, o quantomeno meno vero. Più importante dell’ancora sembrano l’equilibrio e la sincronizzazione, non per forza la concertazione. Una specie di ognuno per sé, a patto che si vada tutti nella stessa direzione.
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