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Dollaro, inflazione e Wall Street: il triangolo delle Bermude

Il mercato ha ‘corretto la correzione’ di inizio febbraio perché è andato a leggere meglio dentro i dati di inflazione e retribuzioni. Ma bisogna tenere d’occhio anche i flussi e i posizionamenti, che puntano a una disaffezione per gli asset denominati in dollari.

19 Febbraio 2018 09:06
financialounge -  correzione di borsa dollaro inflazione tassi di interesse Wall Street Weekly Bulletin

Leggere i dati macro sembra facile. Esce un numero con il segno meno o più davanti, si va a vedere il consensus del mercato, se è in linea non è successo niente, se diverge da una parte o dall’altra si vende o si compra di conseguenza. Venerdì 2 febbraio esce un dato sulle retribuzioni americane più forte delle attese, il mercato è ipercomprato, si diffonde la paura che la Fed potrebbe essere in ritardo con i rialzi dei tassi, la speculazione che punta sull’assenza di volatilità viene presa in contropiede, e il mercato prende un bagno. Lunedì 5 si replica, si va avanti tutta la settimana e la mente torna a quanto accaduto sui mercati nel 1987. È arrivata la correzione! Mercoledì 14 esce un altro dato, i prezzi al consumo di gennaio, ed è più forte delle attese. Sembra il copione perfetto per ricominciare a vendere. E invece non succede nulla, anzi. E la settimana di Wall Street finisce con un rialzo del 4,3%, il più forte da diversi anni, recuperando metà delle perdite sofferte durante la famosa correzione.

INFLAZIONE
Come mai? Perché dentro il dato sull’inflazione ce n’era nascosto un altro, quello sulle retribuzioni orarie dei lavoratori della produzione e con ruoli non direttivi, praticamente i ‘soldati semplici’, che costituiscono l’80% della forza lavoro americana: -0,5% sul mese. Praticamente una smentita di quello che aveva fatto scattare l’allarme rosso due settimane prima.

Fin qui per quanto riguarda il mercato visto come un animale che risponde solo allo stimolo dei dati: dati macro, dati societari, etc. Ma non ci sono solo i dati. Ci sono i posizionamenti. Il mercato è fatto anche di domanda e offerta, ed è alla continua ricerca di un equilibrio tra le due. Che si muovono anche spinte da scelte di portafoglio strategiche o tattiche, che magari con i dati non hanno nulla a che fare.

DOLLARO
Prendiamo il dollaro americano, che è stato un grande tema del 2017 e continua a esserlo in questo avvio di 2018. Normalmente una moneta si muove principalmente in correlazione con l’andamento dei tassi di interesse. Se sono alti rispetto a quelli pagati da altri paesi, c’è convenienza a stare su quella moneta, a parità di altri fattori, perché paga di più. Come mostra il grafico qui sotto, questo vale anche per il dollaro. Ma da metà 2017 la correlazione si è interrotta con una accentuazione a inizio 2018. I tassi americani a 10 anni puntano con sempre maggiore decisione a Nord, e il biglietto verde a Sud.

[caption id="attachment_123457" align="alignnone" width="897"]L'andamento del dollar index e dei rendimenti dei Treasury USA a 10 anni (Fonte: Bloomberg) L'andamento del dollar index e dei rendimenti dei Treasury USA a 10 anni (Fonte: Bloomberg)[/caption]

TASSI
Le spiegazioni che girano sono molte e variegate. Nanette Abuhoff Jacobson, Strategist di Wellington Management Company e di Hartford Funds, sostiene che la responsabilità sia dell’appiattimento della curva dei tassi USA (infatti anche il tasso a 2 anni continua a salire), che di solito segnala una recessione in arrivo, che al dollaro non farebbe bene. Lo strategist di Deutsche Bank George Saravelos la vede diversamente, e scrive ai clienti che il dollaro va giù proprio perché i tassi salgono. Tassi in salita indicano che gli investitori non comprano bond americani, anzi li vendono. E le vendite del benchmark globale fanno scendere la valuta in cui è denominato, il dollaro appunto. Qui non parliamo più di quadro macro, ma di flussi e posizionamenti. Bond e azioni americani sono troppo cari storicamente, e allora il mercato fa lo sconto alla moneta in cui sono denominati. A questo si aggiunge il ritorno dei deficit gemelli americani, quello commerciale e quello federale, spinto dalle riforme di Trump. Conclusione: il dollaro ha ancora strada da fare al ribasso.

APPROFONDIMENTO
Il dollaro debole può far bene alla crescita del PIL nominale globale

Questa spiegazione sembra più convincente perché confortata da un indicatore non citato frequentemente ma che i lettori di FinanciaLounge conoscono perché ne abbiamo parlato di recente, per l’esattezza l’11 gennaio.  I TIC, che sta per Treasury International Capital, ci dicono che a dicembre gli investitori esteri hanno alleggerito le posizioni sulle securities in dollari per quasi 120 miliardi di dollari netti. È la seconda volta in quattro mesi, dopo il deflusso netto di 50 miliardi a settembre. Il dollaro scende semplicemente perché la domanda estera di strumenti finanziari americani si contrae.

BOTTOM LINE
Occhio ai dati sull’inflazione e sulle retribuzioni americane, ma occhio anche ai dati sui flussi e ai posizionamenti. È un intreccio complicato, una specie di Triangolo delle Bermude, da cui partono le spinte che possono far cambiare direzione a Wall Street. Che se si sbaglia, come sembra sia successo a inizio febbraio, è pronta a correggersi. Il problema è che lo sappiamo soltanto dopo.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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