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Scelte d’investimento, ecco l’indice che misura il rischio climatico

Un indice elaborato da un’organizzazione no profit ha classificato il rischio climatico nelle scelte di investimento di 500 grandi investitori a livello mondiale.

16 Maggio 2017 09:40
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Si chiama Global Climate Index 2017 ed è stato elaborato da Asset Owners Disclosure Project (AODP), l’organizzazione internazionale no-profit che analizza e valuta il comportamento di centinaia di investitori in tutto il mondo, per classificare il comportamento (in tema di scelte di investimento in funzione dei rischi climatici) dei 500 maggiori investitori istituzionali al mondo tra fondi sovrani, fondi pensione e assicurativi, fondazioni, che gestiscono risorse per circa 40.000 miliardi di dollari.

L’indice ha permesso di attribuire punteggi dalla tripla A alla D, mentre il segno X è riservato a quei fondi bollati come “laggards” (ritardatari), perché finora hanno ignorato i possibili impatti del climate change: per farlo sono stati valutati la rilevanza dell’economia verde nelle strategie d’investimento, la capacità di gestire i rischi ambientali (carbon risk management) e la chiarezza e la trasparenza delle informazioni.

Secondo AODP, il 60% dei fondi valutati (299 istituzioni per complessivi 27.000 miliardi di dollari) si sta impegnando, a vari livelli e con diverse differenze, a ponderare i rischi climatici nella suddivisione dei portafogli azionari e obbligazionari. I fondi laggard sono diminuiti del 18%, passando da 246 a 201 nel 2016-2017.

Emerge in modo chiaro che le nazioni più rappresentate appartengono all’Europa settentrionale e al mondo anglosassone mentre, al contrario, la Cina figura tra i paesi peggiori quanto a trasparenza degli investimenti e riconoscimento dei rischi climatici, nonostante le più recenti dichiarazioni dei suoi governanti. L’Europa, secondo gli esperti AODP, è leader della finanza verde globale, intesa come capacità di gestire il fattore di rischio climatico.

Dei 34 migliori fondi globali con punteggio AAA, 20 sono europei. Inoltre, in Gran Bretagna e Francia, oltre che in Scandinavia, sono pochissimi i fondi laggard, mentre in Germania sono ancora moltissimi (68% del totale), a dimostrazione di quanto sia complessa la transizione energetica del paese.
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