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Cosa sta succedendo

La sindrome cinese può far paura, ma Evergrande non è la nuova Lehman

Le recenti tensioni geopolitiche si sono sommate alla stretta regolatoria di Pechino e causano fibrillazioni. Ma sono crisi che si possono gestire, come nel caso HNA, e l’opportunità di investimento resta intatta

di Stefano Caratelli 20 Settembre 2021 08:21
financialounge -  Asia cina Evergrande Morning News Weekly Bulletin

A fine gennaio di quest’anno la conglomerata cinese HNA, dopo vent’anni di abbuffata di acquisizioni in giro per il mondo finanziate a debito, dagli alberghi Hilton a Deutsche Bank, dichiarava bancarotta e metteva in vendita gli asset per far fronte a debiti per un paio di centinaia di miliardi di dollari che non riusciva a onorare. La notizia ricevette poca attenzione sui media e meno ancora sui mercati, la Cina allora non era un tema-spauracchio da cavalcare, Biden era appena arrivato alla Casa Bianca e la guerra dei dazi di Trump sembrava da consegnare al passato, così come la nuova ‘guerra fredda’ tra le due superpotenze per il primato tecnologico e commerciale globale, mentre sorgeva l’alba di un nuovo multilateralismo su cui costruire le basi della ri-globalizzazione nel segno della rivoluzione verde, con Pechino che annunciava nuovi ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni. Poi nel giro di qualche mese è cambiato tutto, prima le ondate di strette regolatorie su tech, education, intrattenimento e quotazioni a Wall Street, poi la caduta di Kabul che è sembrata aprire le porte dell’Asia centrale alle ambizioni geopolitiche di Xi Jinping, e alla fine il caso dei sommergibili a propulsione nucleare forniti all’Australia da americani e inglesi.

PECHINO DOVRÀ PROTEGGERE I RISPARMIATORI


In questo nuovo contesto è ‘esploso’ il caso del colosso immobiliare Evergrande, subito ribattezzata da qualche titolo sui media la una nuova ‘Lehman cinese’, il catalizzatore possibile di una tempesta che potrebbe investire il sistema finanziario della superpotenza, che pure continua ad attrarre investimenti da tutto il mondo, e in particolare dalle grandi case americane e europee. I numeri e i problemi di Evergrande non sono molto diversi da quelli di HNA, crescita troppo veloce e disordinata finanziata con troppo debito, che alla fine non si riesce a onorare. Per HNA è stata fatale la pandemia, visto che era investita moltissimo in linee aree e alberghiero. Per Evergrande è stata la corsa dei cinesi all’investimento immobiliare, che assorbe il 40% dei risparmi e spinge a lanciarsi in piani di sviluppo poco sostenibili. Il tutto ha causato una spinta al rialzo dei rendimenti dei bond High Yield, saliti in pochi mesi da circa il 10% a oltre il 14%, un segmento che vede Evergrande primo emittente in dollari con il 16% del mercato. Per Pechino il problema non è di facile soluzione, perché deve riuscire a separare il destino di Evergrande da quello dei risparmi investiti da decine di migliaia di cinesi.

NIENTE DI SIMILE AL CASO DI LEHMAN


Una svendita del patrimonio immobiliare di Evergrande avrebbe inoltre un impatto notevole sui prezzi degli immobili, con un ‘danno collaterale’ per molti risparmiatori, e forse anche con forte malumore sociale, che sicuramente Pechino vuole evitare. Ma deve anche far passare la lezione che ‘chi sbaglia paga’, in linea con la stretta regolatoria che ha intrapreso quest’anno. Un sentiero stretto ma non impraticabile. In ogni caso non sembrano esserci in nessun modo le premesse per una Lehman cinese. Sul debito della banca d’affari di Wall Street fallita nel settembre del 2008 c’era stampata la tripla A delle agenzie di rating, non il ‘junk’ del debito di Evergrande. Inoltre la bolla dei subprime era stata incoraggiata dalla politica di Bush junior che voleva tutti proprietari di case. Entità para governative come Fannie Mae e Freddie Mack erano piene di mutui ad alto rischio ma impacchettati in securities considerate ultra-sicure. Fu una devastante crisi di fiducia nel sistema finanziario americano e per contagio europeo, le grandi banche di Wall Street e di Londra non si fidavano a prestarsi soldi una all’altra neanche sulla scadenza overnight.

UNA TRANSIZIONE CHE CAUSA SUSSULTI


Niente del genere sta succedendo o sta per succedere in Cina. Ma è anche prevedibile che sussulti e nervosismi legati alla transizione di Pechino verso un assetto economico finanziario più ordinato e meno esposto alle scorribande del nuovo capitalismo nato e cresciuto nell’era di Deng continuino a preoccupare mercati e investitori. Anche perché la correzione degli squilibri economici e finanziari interni alla Cina può sovrapporsi a tensioni geopolitiche, con gli americani che stanno spostando dall’Atlantico al Pacifico il presidio dei meccanismi di difesa. Il mezzo giro di compasso che si può tracciare dalla Corea a Hong Kong passando per Taiwan e magari arrivando fino all’India è destinato a indicare un’area di tensioni e scaramucce, se non qualcosa di più. Ma per proseguire nel percorso di crescita la Cina ha bisogno dei capitali e del know how finanziario americano ed europeo, mentre gli investitori dell’area sviluppata del pianeta non hanno molte alternative alla Cina (e all’India) per impiegare in modo redditizio le proprie risorse.

BOTTOM LINE


Con le valutazioni di Wall Street a giudizio di molti diventate un po’ tirate, per l’investitore a lungo termine l’opzione cinese rimane intatta, a condizione di saper scegliere da chi farsi guidare. La dimensione e la crescita tumultuosa sono indicatori di rischio più che di opportunità. Che invece è racchiusa in un mercato di 1,4 miliardi di persone con redditi e consumi in crescita, che sarà sempre più in grado di sostenersi internamente dipendendo meno dalle esportazioni. Le tensioni geopolitiche fanno parte del gioco, ma né a Washington né a Pechino nessuno ha interesse che sia un gioco al massacro.
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