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La morsa di Pechino sui Big Tech può essere positiva per l’investitore

Punire i propri campioni per proteggere il regime sarebbe autolesionista per una Cina impegnata nella sfida con gli Usa, ma se alla fine crea più competizione replicherebbe il successo del Giappone nell’auto 50 anni fa

di Controredazione 26 Luglio 2021 08:41
financialounge -  azioni tecnologiche cina The Contrarian

La Cina stringe la morsa sui suoi stessi colossi di Internet. L’ultimo caso risale a sabato 24 luglio, quando la State Administration for Market Regulation, l’antitrust di Pechino, ha minacciato di ritirare a Tencent la licenza per l’esclusiva sui diritti musicali e l’ha multata per comportamento anti-competitivo, dandole 30 giorni per adeguarsi. La big tech cinese ha subito risposto che si adeguerà alle richieste, si assumerà le sue ‘responsabilità sociali’, e darà il suo contributo per una ‘sana competizione’ di mercato. Il caso di Tencent è solo l’ultimo in pochi mesi, e fa seguito all’inchiesta sulla cybersecurity aperta a inizio luglio su Didi, scattata subito dopo la mega Ipo lanciata dalla piattaforma di mobilità e consegne.


I PRECEDENTI DELLA STRETTA SUI TECH


L’anno scorso Pechino aveva punito Alibaba con una multa antitrust da 2,8 miliardi di dollari e sospeso l’Ipo da 34,5 miliardi di dollari di Ant Group, mentre ad aprile la stessa authority che è intervenuta sabato aveva richiamato 34 società, tra cui anche Tencent e ByteDance, ordinando indagini interne per verificare l’adempimento agli obblighi anti-monopolio. Tutti casi che si aggiungono agli strani ‘esili’ che si sarebbero (auto?) imposti diversi miliardari cinesi, a cominciare da Jack Ma, il fondatore di Alibaba. Il tutto ha sollevato molti dubbi sulla sincerità dell’adesione della Cina al libero mercato, di cui comunque il presidente Xi Jinping si dichiara campione globale.


BIG TECH MOTORI DELLA CRESCITA


C’è però un grosso ‘ma’. La Cina è impegnata nella competizione con gli Usa per il primato economico e soprattutto tecnologico globale. Che senso ha punire proprio i suoi campioni nazionali in nome di una presunta minaccia alla tenuta di un regime autoritario? Oltretutto la tenuta del regime si basa proprio su un benessere economico sempre più diffuso, garantito dalla libertà di fare impresa e di arricchirsi, di cui i big tech sono uno dei motori più potenti. C’è chi offre una spiegazione meno ‘politica’ e più ‘economica’, come Oliver Cox, portfolio manager di JPMorgan Pacific Technology Fund, secondo cui il vero scopo di Pechino è garantire opportunità attraenti di investimento nel settore tecnologico cinese.


VENTI AVVERSI DI BREVE PERIODO


Ovviamente, sostiene Cox, le misure dei regolatori stanno creando ‘venti avversi’ di breve periodo, ma alla fine non impatteranno le forze vitali dell’innovazione e dello spirito d’impresa, mentre la volatilità indotta dalla ‘stretta’ ha spinto i prezzi di alcuni titoli a livelli spropositatamente a buon mercato, creando opportunità molto interessanti per l’investitore. Pechino, secondo questa analisi, non vuole smantellare i leader del tech cinese, ma creare un ambiente che consenta alla nuova ondata di innovatori di fiorire, in modo che l’attenzione degli investitori non si focalizzi sulla posizione di forza monopolistica di chi si è già affermato, ma sulla composizione degli utili e altri fondamentali anche dei nuovi entrati, mentre anche per gli attuali leader un ambiente più competitivo potrebbe liberare molto valore.


COME IL GIAPPONE VINCENTE NELL’AUTO 50 ANNI FA


Questo modo di ragionare fa venire in mente la storia dell’altro colosso economico asiatico che decenni prima della Cina aveva lanciato agli Usa la sfida del primato tecnologico, allora ovviamente non digitale ma nell’industria tradizionale, a partire dall’auto. Il Giappone favorì la crescita dei propri campioni non proteggendone il vantaggio ‘monopolistico’ sul mercato interno, ma favorendo una concorrenza spietata tra le maggiori case, modello su modello, per metterle in grado di competere e vincere sul mercato globale, a cominciare da quello americano. Un fenomeno chiamato allora CB-war, dalla concorrenza tra la Toyota Corona e la Bluebird della Nissan, che diede una grande spinta alla R&D favorendo l’ingresso di altri produttori come Mazda, Subaru, Isuzu, Daihatsu e Mitsubishi, con benefici per i consumatori ma alla fine soprattutto per gli investitori.

 
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