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Mercati emergenti, perché la Fed dovrebbe rimandare il rialzo

20 Novembre 2015 11:09
financialounge -  esportazioni Federal Reserve mercati emergenti Morgan Stanley tassi di interesse
In un mondo in cui i mercati emergenti sono molto più aperti ai flussi di capitali di quanto non lo fossero in passato, l’economia globale si rivela ipersensibile a qualsivoglia segnale di mutamento della politica della Fed. Non deve stupire, quindi, che dal punto di vista dei mercati emergenti sembrino prevalere le ragioni per rinviare il rialzo dei tassi USA anche a dicembre. Con il rafforzamento del dollaro e il rapido reflusso dei capitali verso gli Stati Uniti, le riserve valutarie globali hanno raggiunto il massimo a luglio 2014 e da allora sono diminuite di 700 miliardi di dollari, un calo riconducibile soprattutto alla Cina.

“Un cambiamento di tale portata non può essere ignorato dai funzionari della Fed, soprattutto perché per l’economia statunitense il mondo riveste maggiore importanza di quanto non avesse anche solo dieci anni fa” sottolinea il Team Global emerging market equity di Morgan Stanley Investment Management. Nell’attuale ripresa, la crescita delle esportazioni ha contribuito per circa il 15% alla crescita del PIL statunitense, il doppio rispetto al contributo medio fornito nelle riprese precedenti. Oggi, le fonti estere rappresentano un terzo dei ricavi delle società statunitensi, rispetto a un quarto quindici anni fa.

Il risultato è che le politiche della Fed che causano instabilità nei mercati emergenti rimbalzano più rapidamente verso gli Stati Uniti. Non solo. Anche i movimenti in conto capitale contribuiscono a creare un contesto di maggiore criticità per le decisioni della Fed dal momento che hanno svolto un ruolo sempre più rilevante e il loro contributo alla crescita delle riserve globali è passato da zero a un terzo. Questi flussi finanziari globali sono stati trainati da un’accelerazione dei flussi di capitali in dollari che uscivano dagli Stati Uniti dopo l’istituzione del programma di QE. E la quota in dollari di alcuni flussi finanziari fondamentali è salita bruscamente. In particolare, l’ammontare dei prestiti in dollari concessi a debitori al di fuori degli Stati Uniti è salito a 9000 miliardi di dollari Usa, il doppio rispetto al 2009. Questi prestiti rappresentano il 75% degli impieghi complessivi a favore di non residenti. Gran parte di quei prestiti in dollari è sotto forma di obbligazioni e gli investitori obbligazionari sono estremamente sensibili ai tassi d’interesse statunitensi, il che contribuisce a spiegare perché oggi i mercati finanziari reagiscono a ogni minimo segnale di inasprimento monetario da parte della Fed.

È sempre più difficile trascurare questo fatto. Non deve quindi stupire che, in uno scenario di questo genere, la volatilità finanziaria dei mercati emergenti sia importante per l’economia statunitense. Le politiche del denaro facile attuate dalla Federal Reserve hanno contribuito a stimolare la crescita economica su scala mondiale, quanto meno temporaneamente; la Fed, tuttavia, ha ignorato i segnali di allarme riguardanti gli eccessi che quelle politiche stavano creando, tra cui bolle di credito e dei prezzi delle attività.

Ora, quei segnali di allarme riemergono e ossessionano la Fed visto che, ogni volta che tenta di innalzare i tassi, i mercati globali reagiscono negativamente, e la minaccia che gli effetti possano propagarsi agli Stati Uniti costringe la Fed a ripensarci. Perché il ruolo che la Fed, ora più che mai, riveste è quello di banca centrale del mondo con tutti gli onori e oneri che tutto questo comporta.
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