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Le imposte sul risparmio: come premiare i cassettisti

9 Luglio 2014 09:30
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Nei primi cinque mesi di quest’anno le entrate tributarie
italiane sono aumentate dell’1,4%, attestandosi a quota 150,465 miliardi di
euro: l’extra gettito rispetto allo stesso periodo dello scorso anno è di 2,133
miliardi.

Buona parte di questo tesoretto aggiuntivo deriva dalle imposte
di bollo su conti correnti, depositi e strumenti finanziari che, nel
loro insieme, hanno contribuito per 5,179 milioni (403 milioni in più rispetto
al 2013, pari al +8, 5%). L’incremento di gettito delle imposte di bollo è in
buona parte dovuto all’innalzamento dallo 0,15% allo 0,20% annuo dell’aliquota
facendo diventare la cosiddetta “mini patrimoniale” sempre più
onerosa per i risparmiatori italiani. I quali, dallo scorso primo luglio sono
chiamati a fare i conti anche con la nuova tassazione delle rendite
finanziarie con l’aliquota sulle plusvalenze che è passata dal 20% al
26% (con la sola eccezione dei titoli di stato ed equiparati).

È necessario evidenziare che la tassazione delle rendite
finanziarie in Italia si è adeguata ai livelli degli standard degli altri
principali partner europei. Per quanto riguarda i capital gain sulle
azioni, si va dal 18% (che però può spingersi anche fino al 28%) della Gran
Bretagna fino al 34,5% della Francia, passando per il 21% (che può arrivare al
27%) della Spagna e il 26,375% della Germania. Per quanto riguarda invece i
dividendi azionari, se la Gran Bretagna non applica nessuna
trattenuta, l’Erario spagnolo trattiene il 21%, quello tedesco il 26,375% e
quello francese il 30%.

Detto questo, forse, come proposto da alcuni esperti che sono
preoccupati del possibile impatto delle imposte sui bolli e delle nuove
tassazioni sulle rendite finanziarie sul risparmio degli italiani, si potrebbe
rendere opportuno introdurre un meccanismo che favorisca il risparmio di
lungo termine (come nel caso dei cassettisti): per esempio, abbattendo
di una certa percentuale l’aliquota fiscale del 26% per ciascuno degli anni di
detenzione del titolo o del fondo in portafoglio. In tutti i casi il conto in
tasca agli investitori italiani rischia di diventare salato.

Ipotizziamo che nel giugno 2009 un investitore avesse impiegato
10 mila euro per comperare azioni italiane che avrebbe poi rivenduto a fine
giugno 2011 con una plusvalenza lorda del 10%: in quella data, non erano stati
ancora introdotti i bolli sui depositi e l’aliquota fiscale sulle plusvalenze
era al 12,5%: il guadagno totale netto sarebbe stato pari a 875 euro (cioè
1.000 euro di guadagno lordo meno il 12,5%, 125 euro, di trattenute fiscali).
Immaginiamo ora la stessa operazione effettuata
oggi e chiusa fra due anni con lo stesso rendimento lordo delle azioni in
portafoglio: i mille euro lordi di plusvalenza diventerebbero 700 netti per
effetto dei 40 euro di bolli sui depositi (20 euro per ogni anno) e per i 260
euro di trattenute fiscali (aliquota del 26% sulla plusvalenza). Pertanto a
distanza di pochi anni, lo stesso rendimento finanziario lordo produrrebbe un
guadagno netto in tasca al risparmiatore dell’8,75% (prima) o del 7% (oggi).
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