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Alle presidenziali americane in campo anche la Fed di Powell?

La Federal Reserve di Jerome Powell, bombardata quotidianamente dai tweet di Trump, sta diventando un punto di riferimento per chi pensa che la crescita economica possa e debba dare benefici più diffusi

di Redazione 9 Settembre 2019 09:50
financialounge -  donald Trump Federal Reserve Jerome Powell Weekly Bulletin https://www.flickr.com/photos/federalreserve/46385138651/in/photostream/

‘Fly a kite’ in inglese vuol dire letteralmente lanciare in cielo un aquilone, ma è anche una metafora che significa portare qualcosa, una proposta o anche una persona, all’attenzione di tutti. Magari per sondare l’effetto che fa o magari per impallinarla. L’aquilone che il presidente Donald Trump sta facendo volare sempre più alto si chiama Federal Reserve, e ha sopra il faccione del suo capo Jerome Powell. L’impressione diffusa è che dietro gli attacchi ormai senza sosta di Trump alla Fed, vera colpevole con i suoi tassi di interesse troppo alti del rallentamento dell’economia americana, ci sia la ricerca di un capro espiatorio per i danni collaterali causati dalla guerra dei dazi con la Cina e ad altri partner commerciali, a cominciare dalla Germania. Ma l’aquilone, da bersaglio colpevole della recessione, se e quando dovesse arrivare, potrebbe trasformarsi in un potente richiamo per tutti quelli che non sono allineati con il presidente, che magari non si riconoscono in nessuno della folla di candidati democratici che si preparano a correre per la presidenza, e che hanno bisogno di un punto di riferimento a cui ispirarsi.

SEMPRE PIÙ AMPIO IL FRONTE A DIFESA DELLA BANCA CENTRALE


Negli ultimi tempi sta succedendo qualcosa di insolito. Prima i quattro ex presidenti della Fed in vita – Volcker, Greenspan, Bernanke e Yellen firmano sul WSJ un appello senza precedenti in difesa di Powell e dell’indipendenza della banca centrale dalla politica. Poi Bill Dudley, fino all’anno scorso presidente della Fed di New York e in quanto tale ex membro influente del Fomc, scrive su Bloomberg che la Fed non deve andare in soccorso di Trump limitando i danni della guerra dei dazi, in modo che agli elettori sia chiaro chi è il colpevole. Infine lo stesso Powell viene innalzato sul New York Daily News a ’Labour Day Hero’, l’eroe della giornata celebrata lo scorso 2 settembre, dopo il suo discorso di Jackson Hole per il quale Trump lo aveva bombardato di tweet accusando lui e la Fed di essere ‘nemici peggiori della Cina’. La glorificazione di Powell viene firmata da Dean Baker, co-direttore dell’autorevole Center for Economic and Policy Research e autore di testi importanti come ‘Plunder and Blunder’. Baker elogia Powell per aver citato negli obiettivi della Fed al simposio di fine Agosto l’occupazione, la formazione e i salari di quelli che sono in fondo alla scala sociale.

SCARSEGGIA IL REDDITO IN ECCESSO DA DESTINARE AGLI INVESTIMENTI


L’idea che la Fed debba avere non solo il compito di garantire la stabilità della moneta e favorire la creazione di occupazione, ma abbia anche una missione ‘sociale’, è il tema centrale della ‘Campagna Nazionale per un’Economia Forte’ lanciata con lo slogan ‘Fed Up’ dal Center for Popular Democracy and Action for the Common Good. E’ un’organizzazione cui aderiscono una molteplicità di soggetti, istituzionali e non, presenti in molti Stati, ovviamente di ispirazione progressista ma non schierata in modo militante con il Partito Democratico. Il tema è molto sensibile, soprattutto nella prospettiva delle elezioni presidenziali del 3 novembre dell’anno prossimo, perché il lunghissimo ciclo di espansione ancora in corso negli Usa ha premiato più la componente ‘capitale’ dell’economia, vale a dire il valore degli asset, che non la componente ‘lavoro’, vale a dire i salari, soprattutto nella fasce più basse e più giovani. Una ripresa che mette pochi soldi in più nelle tasche degli americani rischia di essere poco apprezzata quando si va a votare, anche se c’è solo un rallentamento e non una recessione conclamata. In questa ripresa, a differenza di quelle di Reagan e Clinton, il classico ’effetto Wall Street’, nonostante i record, non è stato diffuso, anche per la scarsità di reddito da destinare all’investimento.

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LA SVOLTA DEI CEO DELLE GRANDI CORPORATION AMERICANE


In parallelo con gli estimatori di Powell si stanno muovendo anche i CEO delle grandi corporation americane riuniti nella Business Roundtable, che con le loro aziende danno lavoro a oltre 10 milioni di persone e rappresentano asset per migliaia di miliardi di dollari. Quasi in contemporanea al discorso di Powell a Jackson Hole, la Roundtable ha ridefinito la mission delle corporation includendo nei destinatari della creazione di valore non solo gli azionisti, ma anche clienti, dipendenti, fornitori e in generale le comunità, in una parola tutti gli stakeholder. Trump ha ragione quando accusa i paesi produttori low-cost, a partire dalla Cina, di deflazionare il sistema globale e deprimere tutti i costi anche negli altri paesi avanzati, a cominciare dai salari. Ma con la Fed di Powell sembra proprio aver scelto il nemico sbagliato. Azzerare i tassi in un’economia che continua a crescere oltre il 2% con la disoccupazione al 3,6% non creerebbe molti posti di lavoro in più e soprattutto non farebbe salire i salari, penalizzando oltretutto i risparmiatori più anziani che contano sul rendimento dei titoli del Tesoro. Deve inventarsi qualcosa di diverso, come ha fatto con la riduzione delle tasse alle imprese entrata in vigore a inizio 2018, e deve farlo alla svelta. Altrimenti Jay Powell, che oltretutto è un politico e non un economista, magari potrebbe essere tentato di provare a pensarci lui.

BOTTOM LINE


Dalla Grande Crisi in poi le banche centrali globali hanno guadagnato un prestigio e un potere di supplenza senza precedenti, vedi Mario Draghi salvatore dell’euro dalla catastrofe. In Italia il passaggio dalla prima alla seconda repubblica fu segnato dal ‘prestito’ alla politica di uomini dell’istituzione allora più rispettata e autorevole, la Banca d’Italia, nelle persone di Carlo Azeglio Ciampi e anche di Lamberto Dini. Sono passati quasi trent’anni e l’America non è certo l’Italia di allora. Ma nella corsa alle presidenziali americane non sarà male tenere d’occhio il ‘fattore Fed’.
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