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Brexit

Benvenuti nel nuovo mondo delle nazioni disunite

Il voto europeo è solo l’ultimo capitolo di una lunga tornata elettorale globale che ha toccato India, Sud Africa, Nigeria e Brasile e che si chiuderà in America tra 17 mesi. Un vecchio mondo antico tramonta

di Redazione 27 Maggio 2019 10:30

Le lacrime di Theresa May in uscita di scena, che hanno accompagnato le ultime ore del voto europeo, sono finite su tutte le prime pagine del mondo ma non è chiaro quale sia il messaggio. Sicuramente sono lacrime di delusione per una carriera politica naufragata, che solo a gennaio del 2017, a sei mesi dalla Brexit, sembrava sfolgorante, con i sondaggi che la davano come il primo ministro conservatore più popolare dagli anni ’50. Ma forse sono anche lacrime per un mondo che se ne va. Un vecchio mondo antico dove alla fine si trova un compromesso ragionevole su qualunque cosa, dove un matrimonio fallito può sopravvivere a se stesso con una separazione in casa dettata dal buonsenso e dalla convenienza. Negli ultimi giorni non si è votato solo in Europa. La settimana scorsa il presidente uscente Narendra Modi ha stravinto le elezioni nello sterminato paese-continente dopo interminabili votazioni con un’agenda non solo pro-business e pro-mercato, ma anche dichiaratamente nazionalista nella declinazione induista. Durante la campagna elettorale il presidente del partito di Modi, Amit Shah, ha dichiarato che non sarebbe stata tollerata nessuna infiltrazione dal vicino Pakistan a maggioranza musulmana, fatta eccezione per Buddisti, Indù e Sikh. E secondo alcuni osservatori sono stati proprio i bombardamenti in territorio pakistano di fine febbraio a dare a Modi la spinta decisiva.

FERMENTI DI CAMBIAMENTO NEI GRANDI EMERGENTI


Sempre la settimana scorsa si è votato in un altro grande paese emergente, il Sud Africa. Ha vinto l’African National Congress, fondato da Nelson Mandela, ma con il peggior risultato dal dopo aparthied, con i progressisti della Democratic Alliance che hanno avuto una performance disastrosa. Non così i populisti dell’Economic Freedom Fighters, che hanno raddoppiato voti e seggi pur restando il terzo partito. Andando indietro di qualche mese, a febbraio si è votato anche in Nigeria, che contende al Sud Africa il primato economico, dove si fronteggiavano due candidati praticamente equivalenti: il presidente uscente Muhammadu Buhari, e lo sfidante ed ex vice presidente Atiku Abubakar, entrambi musulmani dell’etnia Fulani nel Nord del paese, dove imperversano i terroristi di Boko Haram. Ha vinto il primo, ma dalle agende di entrambi erano assenti tutti i temi del riformismo progressista, dal cambiamento climatico all’urbanizzazione, in uno dei paesi più inquinati del mondo che si prevede raggiunga quasi il mezzo miliardo di popolazione per metà del secolo. Alla lista delle tornate elettorali globali recenti possiamo aggiungere l’arrivo lo scorso dicembre alla presidenza del Brasile, altro gigante emergente, di Jair Bolsonaro, vincitore con un programma che sembra copiato da Donald Trump.

LE FRATTURE SONO ARRIVATE NEL CUORE DELL’IMPERO


E qui siamo al cuore dell’impero, al centro del mondo e del problema. Tra 17 mesi gli americani vanno a votare per il presidente. Concederanno altri 4 anni a The Donald premiandolo per la performance economica (ammesso che da qui a novembre 2020 non arrivi una recessione)? Oppure, stanchi di essere bombardati di tweet su tutto e tutti, cercheranno tranquillità sulle ginocchia del vecchio zio Joe Biden? O magari dalle primarie democratiche spunterà un Bill Clinton della situazione, pronto a ribaltare a proprio favore proprio la carta vincente del presidente uscente, vale a dire l’economia? Il problema è che l’elettorato americano non è mai stato così polarizzato e diviso, indeciso su quali siano le priorità. Una volta era semplice: lavora sodo, metti su famiglia, comprati una bella casa, metti da parte i soldi per mandare i figli al college e, soprattutto, "non farti superare dai Jones!". Vale a dire dai vicini con cui confina il tuo prato che si sono appena comprati una macchina nuova. Quanto siano cambiati gli americani ce lo dice un sondaggio Gallup uscito qualche giorno fa e passato inosservato in Europa. Alla domanda se il socialismo potrebbe essere una buona cosa per l’America ha risposto sì il 43%! Una settantina d’anni fa erano poco più del 20%. Ma sono aumentati, dal 40% al 51%, quelli che pensano che il socialismo sarebbe ‘un male’.

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UN MONDO DOVE NON C’E’ POSTO PER IL COMPROMESSO


La polarizzazione non è solo un fenomeno americano. Da una parte c’è il desiderio di protezione, non solo economica ma anche dai rischi percepiti come secolari, a cominciare dal cambiamento climatico. Una protezione che può dare solo un governo sempre più invasivo. Dall’altra c’è la voglia di fare e cavarsela da soli, sia come individui che come popoli e nazioni, magari sfruttando le debolezze altrui. La Cina, un paese dove non si va a votare, non fa eccezione, vuole il suo posto al centro del mondo, finora ha giocato sui numeri, ora ha cominciato a giocarsi anche l’eccellenza tecnologica. Tornando alle lacrime di Theresa, sembrano proprio versate per un mondo che sta scomparendo, che non è più governato dal compromesso e dal meno peggio, ma da confronti a due in cui per trovare un accordo si usa molto di più il bastone della carota.

BOTTOM LINE


Con questo mondo di nazioni disunite l’Europa che si chiama Unione deve confrontarsi, ma prima ancora deve ristrutturarsi, possibilmente senza dover perdere per strada un pezzo così importante della sua storia e della sua cultura come la Gran Bretagna. Nei risultati del voto appena concluso bisognerà andare a cercare e trovare gli ingredienti con cui cominciare a rimettere insieme i pezzi.
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