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Il cammino difficile del ritorno alla normalità

Le oscillazioni violente di fine anno dicono che il ritorno alla normalità dopo la grande crisi non può essere fatto solo di politica monetaria. Serve anche un ritorno di attori forti e attivi sul mercato, oggi limitati dall’eccesso regolatorio

31 Dicembre 2018 07:00

Una settimana fa ci siamo lasciati con l’avvertimento di non farsi ingannare dai botti di fine anno. Botti che la settimana natalizia non ha risparmiato. E che botti! Discese ardite e risalite generate dalle due grandi paure che muovono il mercato: la paura di perdere soldi, che spinge a vendere, e quella di perdere l’occasione di farli, che spinge a comprare. Fear and Greed dicono gli americani. Con i grandi investitori in attesa del 2019 per impostare l’allocazione di portafoglio, queste due spinte contrapposte sono state esasperate, anche dalla diffusione ormai capillare di algoritmi e strumenti di investimento passivi. I termini del problema sono gli stessi di una settimana fa: il timore che Jay Powell esageri con i rialzi dei tassi, il timore che anche il presidente Trump esageri andando a testa bassa contro il capo della Fed, e sullo sfondo tutti gli elementi di incertezza che hanno dominato gli ultimi 12 mesi, dalla Brexit alla guerra dei dazi, con l’aggiunta recente di un prezzo del petrolio esposto a oscillazioni violente.

SI SENTE L’ASSENZA DEI MARKET MAKER


Algoritmi e trading automatizzato sono molto citati in questi giorni come causa delle oscillazioni violente dei prezzi a Wall Street, mentre non viene mai chiamato in causa un fattore molto più importante: l’assenza dalla scena di un protagonista essenziale per il buon funzionamento del mercato, le banche. Una volta erano i market maker, le mani forti che mettevano ordine comprando quando tutti vendevano e vendendo quando tutti compravano. Oggi hanno le mani legate dall’impianto regolatorio pervasivo steso come presunta rete di protezione dopo la Grande Crisi, soprattutto in Europa ma ancora anche in America, dove il processo di deregulation procede più a livello di annunci che di fatti concreti. Il principale strumento che le banche hanno, anzi avevano, per svolgere questa funzione fondamentale era il proprietary trading, vale a dire la possibilità di comprare o vendere utilizzando fondi propri e non solo per conto dei clienti. I desk dedicati a quest’attività sono stati smontati, ed esistono solo negli hedge fund e nei broker specializzati. Viene così a mancare non solo un’importante fonte di profitto per le stesse banche, ma anche una fondamentale forza stabilizzatrice, non solo per l’azionario ma anche per il reddito fisso e soprattutto per le commodity.

SULLE SPALLE DI POWELL L’EREDITA’ DI YELLEN


Ma torniamo ai timori che preoccupano il mercato a cominciare dalla Fed e dal rischio percepito, ma non confortato dai dati, che possa esagerare e far deragliare la ripresa. Il problema di Jay Powell, che a febbraio compie il suo primo anno alla guida della Fed, era quello di chiudere il gap lasciato aperto dalla sua predecessora Janet Yellen. A dicembre 2015 Janet aveva alzato i tassi per la prima volta dall’inizio della crisi avviando il cammino verso la normalità monetaria e indicando che nel 2016 avrebbe replicato quattro volte. Poi ci ripensò, secondo i maligni per accompagnare la campagna elettorale di Hillary Clinton, e la replica arrivò solo un anno dopo, a dicembre del 2016, un mese dopo l’elezione a sorpresa di Donald Trump. Con il nuovo inquilino alla Casa Bianca Yellen accelerò il passo ma non abbastanza per recuperare l’anno perso, alzando i tassi tre volte e lasciando in eredità a Powell i Fed Funds all’1,5%. Troppo bassi per un’economia in accelerazione e un’inflazione ormai stabilmente sopra il 2%. A Powell toccava il compito di recuperare il ritardo, infatti ha alzato quattro volte nel 2018 e si prepara a farlo altre due volte nel 2019, per arrivare a quel 3% considerato la soglia della normalità monetaria. Normalità che vuol dire tassi in territorio positivo, vale a dire posizionati sopra l’inflazione, ma soprattutto ritorno a un’economia che non ha più bisogno delle stampelle monetarie per crescere.

UN OBIETTIVO GIUSTIFICATO DAI NUMERI


Se l’economia americana mostra di poter crescere a un tasso intorno al 3% senza bisogno di una politica monetaria accomodante sarebbe un segnale importante anche per il resto del mondo, che nelle principali aree, a cominciare dall’Europa, sta muovendo i primissimi passi sulla strada della normalizzazione monetaria. I dati del Pil reale americano sembrano poco incoraggianti: dal picco del 4,2% di crescita del secondo trimestre ha rallentato al 3,4% nel terzo e punta al 2,7% nel quarto, secondo le ultime stime della Fed di Atlanta. Ma se si guarda il Pil nominale, vale a dire non depurato dall’inflazione, i numeri raccontano una storia diversa e in progressione: dal 4,58% del primo trimestre al 5,44% del secondo al 5,46% del terzo. Questi numeri dicono che i Fed Funds, oggi nella forchetta 2,25-2,50%, sono solo di qualche decimale in territorio positivo rispetto all’inflazione e che l’obiettivo di Powell del 2,75-3,00% sembra in territorio neutrale, vale a dire né di stimolo né di freno alla crescita.

BOTTOM LINE


La lezione di questa fine anno è che in mercati sempre più grandi mancano attori ‘attivi’ in grado di correggere gli eccessi in una direzione o nell’altra. L’arma monetaria, l’unica di cui dispongono le banche centrali, non è lo strumento adatto per fare questo mestiere. Pensarlo e magari provare a forzarle a rincorrere il mercato è sbagliato e pericoloso. Forse il ritorno alla normalità dovrebbe prevedere anche mani meno legate per chi, come le banche, questo mestiere lo ha sempre fatto.
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