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Attese & Mercati – Settimana dal 14 gennaio 2019

Insight su cosa ci aspetta e cosa potrebbe sorprenderci nelle economie e sui mercati. Trimestrali dei big di Wall Street, il "peso" di Amazon e il 2019 che si lascia alle spalle anche il problema della lira turca.

14 Gennaio 2019 08:52

TRIMESTRALI IN ARRIVO, EUROPA ANCORA DOPPIATA DAGLI USA


Parte con qualche grosso nome dei tecnologici, come Micron Technology e Netflix, ma soprattutto con le grandi banche di Wall Street la stagione delle trimestrali americane con Citi, JPMorgan e Wells Fargo che in settimana pubblicano i risultati degli ultimi 3 mesi del 2018. Anche se non siamo ai livelli europei, le banche sono le grandi ritardatarie dell’azionario americano, penalizzate più di qualsiasi altro settore economico dalla lunghissima stagione dei tassi negativi, che hanno praticamente cancellato il margine del loro core business. Le americane si rifanno con l’investment banking, in cui spadroneggiano a livello globale, mentre le europee sono sempre più tagliate fuori dall’unico business con cui si fanno quattrini da un impianto regolatorio soffocante. Vediamo se il ritorno a tassi positivi in America si fa sentire nelle trimestrali, non tanto in termini di utili attuali ma di guidance. In generale gli utili delle trimestrali dello S&P 500 sono attesi in rialzo del 14,5%, in rallentamento dal 28,4% di crescita del terzo trimestre. In Europa gli utili per azione dello STOXX 600 sono attesi in crescita della metà, il 7,1%. Il che spiega come mai Reuters stima che le azioni europee vengano scambiate a sconto di circa il 40% rispetto alle americane.

[caption id="attachment_133660" align="alignnone" width="450"]Le azioni europee, secondo le stime, vengono scambiate a sconto del 40% rispetto a quelle USA (Fonte: Reuters) Le azioni europee, secondo le stime, vengono scambiate a sconto del 40% rispetto a quelle USA (Fonte: Reuters)[/caption]

ANCHE I COLOSSI NON SONO PIU’ QUELLI DI UNA VOLTA


Quando si legge che Amazon diventa la più grande azienda del mondo per capitalizzazione con un controvalore di quasi 800 mld di dollari, praticamente il PIL di un paese medio-piccolo, si può essere spinti a pensare che il peso dei colossi high-tech che viaggiano in prossimità, come Microsoft, Apple o Google, sia schiacciante sui listini americani, e che un loro movimento possa spingere al rialzo o al ribasso lo S&P 500. Jason Zweig sul WSJ è andato a spulciare la classifica dal 1926 ad oggi e ha scoperto che non è affatto così. Da allora a oggi sono 10 le aziende che si sono contese il primo posto è Amazon è solo undicesima, dopo Microsoft, Apple, Exxon, General Electric, Walmart, Altria Group, IBM, DowDuPont, General Motors e AT&T. E mentre oggi il turnover al vertice è veloce, in passato la prima posizione è stata monopolizzata per anni da un solo titolo, come AT&T e IBM. Anche in termini di peso percentuale il primato di Amazon impallidisce nel confronto storico. Infatti ‘vale’ appena il 3% del totale delle azioni americane, mentre nel 1932 AT&T rappresentava il 13%, General Motors l’8% nel 1928 e IBM il 7% nel 1970, non a caso era soprannominata Big Blue. Vuol dire che il mercato cresce dimensionalmente molto di più dei suoi campioni. Non solo, alla fine performa anche meglio. I campioni, infatti, nei cinque anni successivi alla conquista del primo posto, sono andati peggio del resto in media di 6 punti percentuali.

IL 2019 SI LASCIA ALLE SPALLE IL PROBLEMA TURCHIA


Alla fine la cocciutaggine di Murat Çetinkaya, capo della banca centrale turca, sembra proprio aver salvato il paese da una fine venezuelana, verso cui la scorsa estate rischiava di portarlo la linea suicida del presidente Erdogan, che di fronte all’inflazione galoppante e alla moneta in caduta libera dichiarava guerra al dollaro e denunciava un complotto internazionale. Probabilmente qualcuno (lo zar Putin?) ha avvertito il sultano di Ankara che così andava a schiantarsi. Erdogan ha smesso di parlare di politica monetaria, non ha licenziato (poteva farlo) Çetinkaya che ha potuto così svolgere il suo compito di bravo banchiere centrale: con l’inflazione che schizzava verso il 20% ha portato i tassi prima dal 6% al 16% e poi addirittura al 24% piegando l’inflazione dal 25 al 20%. Il risultato è che ad agosto ci volevano 7 lire turche per comprare un dollaro, ora ne bastano poco più di 5 mentre la bilancia dei pagamenti è in sostanzioso surplus e l’inflazione ha preso decisamente direzione Sud. La Turchia la scorsa estate aveva fatto scattare insieme all’Argentina l’allarme rosso sulla tenuta di monete e debito emergenti. Anche Buenos Aires ha alzato i tassi alle stelle ma i risultati non si sono ancora visti. Però l’allarme globale è rientrato.
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