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Mercati emergenti, il concetto di nuova geografia degli investimenti

Il concetto di nuova geografia degli investimenti porta a valutare attentamente dove vengono generati i ricavi di un’azienda piuttosto che la sua sede geografica.

2 Ottobre 2017 10:11
financialounge -  Capital Group mercati emergenti Natasha Braginsky Mounier

In passato i mercati emergenti venivano percepiti come economie guidate principalmente dal settore energetico e dei materiali, mentre attualmente i settori dell’IT e finanziario coprono il 50% dell’indice: si tratta di uno spostamento settoriale, che indica un importante sviluppo strutturale degli emergenti.

“Gli investitori più pazienti sono stati ricompensati: 10.000 dollari investiti nei mercati emergenti a fine 2001 oggi valgono 51.500 dollari, mentre la stessa somma investita nei paesi sviluppati oggi varrebbe 28.800, cioè circa la metà del rendimento degli emergenti”, fa sapere Natasha Braginsky Mounier, Direttore investimenti di Capital Group, specificando che è proprio questa la peculiarità della capitalizzazione nel lungo periodo: gli emergenti hanno generato un CAGR (tasso annuo di crescita composto) dell’11% su base annua nel periodo, contro il 7% dei paesi sviluppati, nonostante la crisi finanziaria globale.

Secondo Natasha Braginsky Mounier, all’interno di un contesto caratterizzato da una crescita globale diffusa e da tassi d’interesse bassi, le valutazioni dei mercati emergenti appaiono attraenti.

“Se consideriamo il rapporto tra prezzo dei titoli e utili (p/e), gli emergenti scambiano al 22% di sconto rispetto ai paesi sviluppati, al di sotto del livello medio di sconto degli ultimi 10 anni. Se a questo aggiungiamo che la crescita degli utili previsti al +15% nei mercati emergenti si attesta al livello più alto su scala globale, si conclude facilmente che le valutazioni dei mercati emergenti raramente sono state significativamente più economiche”, precisa la manager che non manca di sottolineare un altro aspetto tutt’altro che secondario: le valute dei paesi emergenti sono ben supportate da alti rendimenti reali delle obbligazioni rispetto ai paesi sviluppati e vedono flussi in entrata verso fondi obbligazionari.

Tuttavia, investire nei mercati emergenti è diventato piuttosto complesso a cominciare dal fatto che l’Asia costituisce attualmente il 73% del valore del mercato, con la Cina, che da sola rappresenta il 28,5% e la Corea il 15.3%. Inoltre la capitalizzazione dell’indice MSCI EM equivale al 18% del PIL degli emergenti, mentre l’MSCI del Regno Unito arriva al 97% e quello degli Stati Uniti al 112%: è la conferma della diffusione di grandi multinazionali sia nel Regno Unito che negli USA rispetto agli emergenti.

Infatti, le dieci principali società quotate negli USA hanno una capitalizzazione di circa 4.300 miliardi di dollari quanto l’intero indice MSCI EM.

“Per tutte queste ragioni, un’ulteriore opportunità per avere un’esposizione sui mercati emergenti riducendo la volatilità del portafoglio è individuare investimenti convincenti tra le società dei mercati sviluppati che hanno un’importante presenza nei mercati emergenti”, riferisce Natasha Braginsky Mounier che, a tale proposito, rivela di applicare il concetto di nuova geografia degli investimenti, secondo il quale è bene valutare dove vengono generati i ricavi di un’azienda piuttosto che la sua sede geografica.

“Si tratta di un approccio che garantisce una maggior diversificazione del portafoglio sia da un punto di vista geografico che settoriale, creando un cuscino in fasi di ribasso di mercato. Abbiamo usato questa strategia per 18 anni e si è dimostrato un metodo di successo per generare robusti e stabili rendimenti per investitori di lungo periodo”, conclude Natasha Braginsky Mounier.
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