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International Editor's Picks - 22 aprile 2014

22 Aprile 2014 09:20
financialounge -  arte bolla speculativa International Editor's Picks IPO settore tecnologico Wall Street
Bolla o non bolla? È l’interrogativo dei principali media finanziari internazionali praticamente da inizio anno. L’indiziato numero uno è ovviamente Wall Street e i titoli tecnologici americani. Barron’s ha una teoria interessante: proprio il fatto che i giornalisti finanziari parlino tanto di bolle che stanno per scoppiare tiene lontano il rischio che questo accada davvero. Nel 2000 e nel 2007 i crolli presero di sorpresa non solo i mercati, ma anche la stampa. La consapevolezza e il dibattito pubblico aiutano gli investitori a riflettere, e a non lanciarsi nell’irrazionale esuberanza.

Il tema bolla o non bolla appassiona anche il popolare blogger di Bloomberg Barry Ritholtz, che sciorina una serie di dati e di fatti tutti contro la probabilità di disastri imminenti. 1) Nel primo trimestre del 2014 le IPO sono state la metà di quelle del primo trimestre del 2000 e, soprattutto, il ritorno medio nel primo giorno di quotazione è stato solo del 22% contro l’assurdo (con il senno di poi) 96% di 14 anni fa. 2) Sempre a marzo 2000 i titoli speculativi si compravano a un premio del 43% rispetto a quelli che pagavano un dividendo, oggi siamo al 22%. 3) Cash: nel 2000 il 20% del totale veniva dall’equity, oggi siamo a un più salutare 11% (anche perché con i tassi ai minimi i bond sono più efficienti).

Bolla o non bolla, il trend di diminuzione dei titoli quotati in America non accenna a cambiare. Lo segnala USA Today. Il revival delle IPO a Wall Street in atto da inizio anno non basta ancora a compensare le uscite, anche se il 2014 promette di essere l’anno migliore per le matricole dal boom di Internet. A fine 2013 i titoli quotati in USA erano 5.008, il 44% in meno rispetto al picco di 8.884 del 1997. La ragione principale sta nelle acquisizioni. Nel 2013 in USA ne sono state fatte per 1,2 trilioni di dollari, più 20% rispetto all’anno prima e ai massimi dal 2007. Quando un’azienda è comprata, il suo titolo scompare dal listino. Infine ci sono i fallimenti, sembra che ci sia ancora qualche coda del falò di dot.com bruciate nella bolla di 14 anni fa.

Investire in arte con un fondo? Il mercato globale vale ormai 66 miliardi di dollari. Gli artisti di successo sono diventati blue chip. Ed è nata un’industria dei fondi specializzata. Per ora gli asset gestiti sono solo 2 miliardi di dollari. E il biglietto per entrare costa caro. Il Fine Art Fund Group accetta solo quote da mezzo milione di dollari in su. CNN Money fa una fotografia dettagliata del fenomeno. E arriva alla conclusione che è, e probabilmente resterà, un passatempo per i molto ricchi. Gente che non ha bisogno di disinvestire e può permettersi di tenere appesa in salotto per anni la sua asset class.

Asset allocation Hip-Hop. Forbes si diverte e costruisce un portafoglio basandosi sulle parole più usate nelle rime dei rapper più famosi: Birdman, Jay Z, 50 Cent, Dr. Dre, P. Diddy. Tutta gente che vale dal mezzo miliardo di dollari in su. L’asset più gettonato è il cash, più o meno il 30%. Poi vengono automobili, armi e abbigliamento, tra il 10% e il 20% di ciascun asset class. Liquori, champagne, gioielli, arte e real estate completano l’esercizio di costruzione del portafoglio. Forbes chiude citando una battuta regalata da Jay Z a Warren Buffet: “Sai, la musica è un po’ come la Borsa, c’è il tema caldo del momento, la gente tende a prendere decisioni emotive, non si basa su quello che sa, è pronta a saltare sul prossimo tema caldo .. insomma non è roba per te”.
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