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International Editor’s Picks – 16 gennaio 2017

16 Gennaio 2017 09:36
financialounge -  Incumbent International Editor's Picks Marine Le Pen rating sondaggi
Le Pen: i bookmakers sbagliano di nuovo?
Maggio 2016. I bookmakers di Londra, quelli che accettano scommesse su qualunque cosa, a sei mesi dalle elezioni americane, danno la possibilità di una vittoria di Trump al 28 per cento, contro il 69 per cento attribuito alla Clinton. Sappiamo come è andata e sappiamo anche che nessuno degli sfracelli previsti in caso di vittoria del repubblicano dalla chioma arancione si è avverato, anzi. Gennaio 2017, gli stessi bookmakers danno le possibilità di vincere le presidenziali di Marine Le Pen al 27 per cento, contro il 62 per cento con cui è accreditato il candidato dell’establishment Fillon. Gli esperti interpellati dal Financial Time in questi giorni non credono che la leader del Front National abbia alcuna possibilità di vincere, e nel caso assolutamente improbabile che questo accada prevedono sfracelli ancora più disastrosi di quelli previsti per Trump. Intanto i sondaggi elettorali in Olanda, dove a marzo si vota per eleggere il nuovo premier, prevedono che il candidato anti-Islam Geert Wilders vinca le politiche con il suo PVV, il Partito della Libertà. Finora sondaggi e previsioni hanno sbagliato non solo gli esiti elettorali, ma soprattutto le conseguenze delle varie sciagure temute in caso di vittoria della Brexit prima e di Trump poi. Nel caso del referendum renziano hanno azzeccato il risultato ma sbagliato le previsioni sulle conseguenze. In tutti i casi si è rivelato sbagliato il sillogismo sottostante: se il popolo butta a mare le élites, per quanto inadeguate, e si affida a politici improvvisati senza alcuna esperienza, possono succedere solo catastrofi. Vediamo perché nel post che segue.

Il vero bersaglio dei populismi
Le élites, come quelle che da oggi si riuniscono a Davos, sono l’obiettivo dei populismi scatenati in Europa e America che vogliono decapitare il vertice dei sistemi politici che si è dimostrato incapace di dar vita dopo la crisi a un benessere economico e sociale più diffuso e inclusivo. Ma se si decapita il vertice, che bene o male sa far funzionare la macchina, il sistema senza più testa è destinato a collassare e piombare nel caos. Corretto? No. Il problema è che nel mirino non ci sono le élites, come ci raccontano le analisi pubblicate nell’ultimo anno su tutti i media del mondo. Basta guardare la squadra messa insieme da Trump, presunto dilettante allo sbaraglio. Se non è un élite quella, di cosa stiamo parlando? Nel mirino della gente stanca della politica che non riesce a trovare soluzioni non sono le élites, ma gli incumbent. Il termine di solito si usa per indicare, nei mercati a monopolio naturale, il titolare della concessione o della proprietà del monopolio – ferrovie, autostrade, reti di telecomunicazioni o di distribuzione di energia – che non vuole rinunciare al vantaggio competitivo di cui gode e si oppone all’ingresso di nuovi operatori. Incumbent viene anche usato per indicare un politico a fine mandato, che può però giocarsi la rielezione, sua o del suo delfino, grazie al vantaggio competitivo di aver governato per un certo numero di anni e di avere ancora a disposizione, durante la competizione elettorale, tutte le leve del potere. La gente vota l’alternativa all’incumbent perché non vuole premiare il presunto vantaggio di chi si propone come l’unico in grado di far funzionare la macchina perché la conosce. Le élites non c’entrano. Casomai sono proprio loro che licenziano l’incumbent.

Rating e multe: qualcosa non torna
Titolo di un grande giornale di domenica: banche e bond italiani al test del downgrade. Dopo Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, anche Dbrs, agenzia canadese di rating, ha tolto la A all’Italia abbassando il giudizio a tripla B. Oggi i mercati reagiscono in maniera tutto sommato composta, il downgrade fotografa il passato, certo non illumina il futuro. Ma le agenzia di rating sono nelle news anche per un altro motivo. Anche Moody’s finisce sotto la mannaia delle autorità USA per non aver valutato correttamente le securities in cui venivano impacchettati i mutui subprime ai tempi della bolla e dovrà pagare centinaia di milioni di dollari. A Standard & Poor’s la stessa colpa è già costata oltre un miliardo di dollari un paio d’anni fa, mentre non si contano le grandi banche americane e europee che hanno sborsato miliardi, anche loro per avere, secondo le accuse, venduto ai clienti titoli tossici mascherati da investment grade. Qualcosa non torna. Le grandi banche si basano sui rating delle grandi agenzie. Se su una security c’è scritto tripla A, come stava scritto sui bond Lehman fino al giorno prima del crac, ci credono. Se sono state ingannate dalle agenzie, dovrebbero far loro causa per miliardi di dollari. Se fossero stati tutti d’accordo, e le agenzie avessero taroccato i rating su mandato delle banche, avrebbero dovuto partire class action per centinaia di miliardi di dollari con l’accusa di cospirazione globale contro il risparmio. Niente di tutto questo è successo. Tutti preferiscono pagare pur proclamando la propria innocenza per evitare mesi o anni di esposizione mediatica negativa. Forse ha ragione Barclays, unica finora che ha deciso di non pagare e sfidare in tribunale il Dipartimento di Giustizia USA. Secondo alcuni ha ottime possibilità di spuntarla..
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