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Dollaro, trimestrali e ‘Fattore C’

Non c’è l’euro ma il petrolio dietro il ripiegamento del dollaro. Intanto Wall Street attende le trimestrali ben posizionata. L’economia che continua a correre farà perdonare agli americani gli eccessi di The Donald?

15 Gennaio 2018 10:04
financialounge -  banche centrali dollaro donald Trump petrodollaro petrolio trimestrali Wall Street Weekly Bulletin

Nel caffè scorretto di mezz’agosto avevamo visto nel dollaro una stella cadente della notte di San Lorenzo. Un mese dopo avevamo ipotizzato che nel Trump trade di fine 2016 avesse toccato il terzo picco di una fase discendente iniziata quasi settant’anni fa con l’abbandono del gold standard da parte di Nixon. A distanza di quattro mesi confermiamo. E confermiamo anche che non necessariamente è una cattiva notizia. A spedire il dollaro in direzione sud è indubbiamente il petrolio, anche qui ci ripetiamo, che ha preso il posto dell’oro come àncora ‘fisica’ del biglietto verde e che nelle ultime settimane ha accelerato il movimento al rialzo iniziato, guarda caso, proprio subito dopo il picco del dollaro di fine 2016.

L’euro c’entra poco, nonostante i titoli dei giornali. È un fattore laterale ma non la forza principale. Il dollaro si è indebolito anche contro lo yen e le principali valute che compongono il Dollar Index. Un ruolo sicuramente lo gioca la normalizzazione monetaria che vede viaggiare nella stessa direzione, ma con tempi diversi, le principali banche centrali. La flottiglia delle tre caravelle, Fed, BCE e BoJ, veleggia verso la terra inesplorata del dopo-QE. Ma la prima è molto più avanti ed è entrata in area Quantitive Tightening, le altre due sono appena uscite dal porto. Qui il problema è la velocità, se la prima rallenta troppo e le altre due accelerano potrebbero esserci dei rischi. Ne parleremo giovedì su EasyWatch, l’osservatorio di FinanciaLounge che ogni mese prende la temperatura alle economie globali.

APPROFONDIMENTO
Crescita globale sostenuta: nel 2018 la parola passa alle banche centrali

Torniamo al petrolio con un occhio alla stagione delle trimestrali appena partita a Wall Street, con JP Morgan e Wells Fargo che tanto per cambiare hanno battuto le attese. Sul prezzo del greggio sono al lavoro due forze contrapposte. Da un lato spingono in direzione di ulteriori rialzi le tensioni in Iran e in generale nel Golfo insieme al mantenimento dei limiti produttivi che l’OPEC si è auto imposta. Sul fronte opposto gioca la forza calmieratrice sui prezzi che man mano che questi salgono viene esercitata dai produttori di shale nordamericani. Al contrario di quello che succede per l’OPEC, qui più i prezzi aumentano più c’è interesse ad aumentare la produzione, perché diventano redditizie anche le estrazioni che erano state buttate fuori mercato proprio dai prezzi troppo bassi. I dati confermano: la Energy Information Administration USA prevede per il 2018 un aumento della produzione USA a 780.000 barili/giorno, oltre il doppio dei 380.000 del 2017. Un livello che potrebbe anche aumentare se il prezzo del WTI dovesse avvicinarsi ai 70 dollari. Sarà quello alla fine il prezzo giusto? Lo detterà il ritmo di espansione delle economie globali. Tra inizio 2015 e fine 2017 i consumi globali sono cresciuti di 5 milioni di barili/giorno, anche grazie al crollo dei prezzi. Ma un impatto maggiore lo ha sicuramente avuto la crescita globale diffusa, e anche la speculazione. Si dice che gli hedge fund abbiano accumulato posizioni al rialzo senza precedenti, equivalenti a un milione di barili su Brent e WTI.

APPROFONDIMENTO
Il ritorno del petrodollaro

E veniamo a Wall Street. Se la combinazione dollaro debole/petrolio forte può essere un problema per economie e imprese in Europa e Giappone (cambio meno competitivo + costo più alto delle materie prime) non sembra certo esserlo per la Borsa americana. Per valutare correttamente i risultati societari di Wall Street bisogna avere presenti tutte le componenti e distinguere correttamente i fattori temporanei e congiunturali rispetto ai trend di fondo. Ad esempio, come nota su Seeking Alpha l’advisor indipendente che si cela dietro lo pseudonimo di ‘Fear & Greed’, tra il 1 gennaio 2012 e il 31 dicembre 2016, lo S&P 500 è cresciuto del 94%, mentre la crescita degli utili si è limitata al 20%. Questo perché gli energetici sono collassati mentre i finanziari hanno dovuto fare i contri con il dopo-2008. Ma al netto di queste due componenti, afflitte da fattori temporanei, la Corporate America è cresciuta alla grande in quei 5 anni. E il mercato ha apprezzato di conseguenza. Ora proprio quelle due componenti rimaste indietro si stanno confermando protagoniste in partenza di 2018.

Bottom line. Prendiamo a prestito una divertente ed erudita analisi della ‘Nota Diplomatica’, scritta ogni settimana da un acuto osservatore americano che si diverte a guardare il mondo con scanzonata ‘italianità’. L’ultima ci parla di un Trump che come il Re Lear di Shakespeare sembra avviato verso una fine tragica per sé ma anche per i suoi avversari e che invece, grazie a una dotazione straordinariamente generosa di ‘Fattore C’, potrebbe ricucire il rapporto con un’opinione pubblica ancora in maggioranza ostile con un finale ‘tutti felici e contenti’. Con l’aiuto di un’economia che va alla grande e di una Borsa alle stelle.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)
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